Tra portuali e doganieri infedeli così la “azienda” parallela gestiva il narcotraffico nel porto di Gioia
Ogni cosa funzionava alla perfezione, ogni ingranaggio era oliato per bene: insomma, una “macchina” efficiente. Anzi, a dire il vero, qualcosa di più vicino ad una vera e propria azienda, strutturata e organizzata per garantire alla droga di passare “in sicurezza” dalla Calabria per poi, evidentemente, inondare le piazze di spaccio d’Italia e forsanche d’Europa.
Teatro lo scalo di Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria, un porto in cui non è certo una novità il via vai di stupefacenti, anche di imponenti partite, soprattutto in arrivo dal Sudamerica; ma stavolta di nuovo c’è l’aver potuto far luce su quello che viene ritenuta la “struttura logistica” che avrebbe assicurato la gestione delle “fasi operative” del trasporto, recupero e stoccaggio della droga.
Gli inquirenti la definiscono come una sorta di “società di servizi”, articolata su tre distinti livelli e di cui avrebbero fatto parte oltre una trentina di persone.
Tra queste: esponenti delle principali famiglie di ‘ndrangheta in grado di garantire l’importazione dei carichi di cocaina sudamericana; così come coordinatori delle squadre di operai portuali “infedeli” che avrebbero retribuito la squadra con una parte della “commissione”, variabile tra il 7 e il 20% del valore del carico, ricevuta dai committenti (le dazioni ricostruite ammonterebbero ad oltre 7 milioni di euro); infine, operatori portuali incaricati materialmente di estrarre la cocaina dal container “contaminato” e procedere all’esfiltrazione dello stesso verso luoghi sicuri.
Questa la struttura fin qui ricostruita dalla Dda reggina che stamani ha incaricato la Guardia di Finanza di procedere all’arresto di 36 persone, 34 delle quali finite in carcere e le altre due ai domiciliari, e ritenute tutte coinvolte appunto in un traffico internazionale di stupefacenti aggravato dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta (QUI).
Contemporaneamente sono state disposte delle perquisizioni e dei sequestri per oltre 7 milioni di euro e del patrimonio aziendale di due imprese di trasporti che si ritiene siano state utilizzate allo “scopo”.
IL “CONTAMINATO”, IL “PONTE” E LA “USCITA”
L’operazione arriva al termine delle indagini che hanno permesso di togliere dal mercato oltre 4 tonnellate di cocaina del valore al dettaglio di circa 800 milioni di euro.
Da qui, scavando a fondo, gli investigatori sono arrivati a definire l’organizzazione dei narcotrafficanti: un lavoro non facile considerando che i presunti membri non lasciassero nulla al caso ma, soprattutto, che erano soliti comunicare tra loco con telefoni cellulari criptati.
Nonostante ciò gli inquirenti sono giunti comunque a dettagliare le fasi del traffico: si partiva, infatti, dai fornitori sudamericani che indicavano ai referenti locali il nome della nave in arrivo e del container carico di stupefacente.
L’importazione passava poi sotto la supervisione dei dipendenti portuali coinvolti che si attivavano affinché il container “contaminato” venisse sbarcato al momento opportuno e posizionato in un luogo convenuto.
Avuta la disponibilità dello stesso, i portuali infedeli provvedevano a collocarlo in un’area “sicura”, individuata appositamente, per consentirne l’apertura e, quindi, lo spostamento del narcotico in un secondo container (abitualmente indicato dagli indagati come “uscita”) ritirato, nelle ore successive, da un vettore compiacente e trasportato nel luogo indicato dai responsabili dell’organizzazione.
È proprio la ricostruzione della complessa fase dello spostamento dei container all’interno del porto che avrebbe consentito di disvelare la modalità utilizzata dai portuali per il trasbordo della droga, da loro stessi denominata sistema del “ponte”.
“Nello specifico – spiegano difatti gli inquirenti - individuata l’area di sbarco idonea allo scopo, il contenitore ‘contaminato’ veniva posizionato difronte al contenitore ‘uscita’, lasciando trai due la sola distanza necessaria all’apertura delle porte per lo spostamento della merce illecita. Al di sopra dei due container, quindi, ne veniva adagiato un terzo, denominato appunto “ponte”, con lo scopo di celare, anche dall’alto, i movimenti nell’area sottostante”.
Dunque, allestita l’area, così da non destare sospetti, i portuali venivano trasportati sul luogo delle operazioni, nascosti all’interno di un quarto contenitore, che veniva adagiato nella stessa fila dove era stata allestita la struttura.
Infine, per evitare che estranei ai fatti intralciassero le operazioni, due straddle carrier (dei veicoli speciali adoperati per la movimentazione dei container), condotti dagli stessi indagati, stazionavano ai lati della fila di contenitori dove era stato costruito il ponte, per impedirne l’accesso e monitorare, dall’alto, l’eventuale arrivo delle Forze dell’Ordine.
Terminate le operazioni, dunque, ai container venivano applicati sigilli contraffatti. A quello proveniente dal Sud America veniva apposto un sigillo “clone”, spedito dalla stessa organizzazione fornitrice e nascosto all’interno di uno dei colli contenenti la sostanza stupefacente, mentre al container “uscita” veniva apposto un sigillo fasullo, predisposto dalla compagine criminale incaricata del recupero del narcotico.
IL DOGANIERE “INFEDELE”
Nel corso delle indagini è poi emerso il presunto coinvolgimento di un appartenente all’Ufficio Antifrode dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Gioia Tauro – oggi finito in carcere.
L’ipotesi è che per agevolare l’organizzazione, sfruttando le sue mansioni nell’ambito dei controlli ispettivi previsti, avrebbe alterato l’esito della scansione radiogena operata su un container contenente 300 Kg di cocaina, oscurando le anomalie riscontrate e attestando la coerenza della scansione con il carico dichiarato.
Per questo comportamento il doganiere avrebbe ottenuto una somma di denaro pari al 3% del valore del carico illecito.
Le investigazioni hanno anche consentito di individuare i soggetti ritenuti responsabili della progettazione ed esecuzione di un rilevante traffico dal Sudamerica alla Calabria, caratterizzato da periodiche e imponenti importazioni di stupefacente, parliamo di circa 2 tonnellate ciascuna.
In una occasione, per scansare i controlli gli indagati calabresi avrebbero ideato e richiesto ai fornitori colombiani delle specifiche modalità di occultamento del narcotico, inviando veri e propri schemi in cui veniva suggerita, con la raffigurazione del container, la ponderata distribuzione del carico, con la previsione di nascondere 4 panetti di cocaina dentro ogni singola scatola di banane (ovvero il “carico di copertura”), ad esclusione delle prime e delle ultime file di scatole, da non “contaminare” poiché più facilmente ispezionabili.
Il carico, consistente in circa 1.920 panetti di cocaina, che avrebbe dovuto eludere i controlli effettuati con l’utilizzo dello scanner, è stato, tuttavia, intercettato e sequestrato dai Finanzieri.
Tra i soggetti coinvolti figurano quattro narcotrafficanti internazionali, due originari della fascia ionica reggina e due di origine campana, di cui uno, definito “di rilievo criminale assoluto”, è stato recentemente espulso da un Paese Mediorientale per fatti analoghi.
I DETTAGLI DELL’INDAGINE
Essenziale per il buon esito delle attività si è dimostrato il coinvolgimento delle più importanti Istituzioni ed Agenzie europee ed internazionali dedite al contrasto dei crimini transnazionali.
Le indagini, infatti, per il tramite del II Reparto del Comando Generale della Guardia di Finanza sono state realizzate con la collaborazione di Europol e della Dcsa, nonché della Dea, la Drug Enforcement Administration statunitense.
All’operazione odierna hanno partecipato Trecento militari del Comando Provinciale delle fiamme gialle reggine, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia, diretta da Giovanni Bombardieri, con il supporto di altri Reparti del Corpo. Il blitz è scattato nelle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Bari, Napoli, Roma, Terni, Vicenza, Milano e Novara.