Confisca a Gioia, parla la commerciante: ‘ndrangheta fa schifo ma noi vittime dello Stato
Dopo la confisca eseguita ieri dai carabinieri a carico di due coniugi gioiesi (QUI), coinvolti tre anni fa nell’operazione Geolja (QUI) che colpì nel 2021 gli interessi della cosca Piromalli, da cui gli stessi commercianti - secondo gli inquirenti - avrebbero subito numerose imposizioni e minacce per poter esercitare la loro professione, uno di loro, Maria D’Agostino, ci ha inviato una lettera (che pubblichiamo a seguire ed integralmente) per spiegare la sua versione dei fatti non mancando di evidenziare come si ritenga “una vittima del sistema delle misure di prevenzione”.
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… “La perversione del sistema delle misure di prevenzione, già ampiamente nota con il caso Cavallotti, per essere comprensibile a tutti potrebbe così sintetizzarsi: anche in assenza di prove e mentre ti stanno facendo il processo principale, sulla base di semplici elementi di sospetto, un Tribunale speciale, che non valuta prove ma sospetti, in Italia, o meglio, nella Repubblica burocratica d’Italia, può disporre il sequestro e la confisca dei tuoi beni.
Occorre rettificare e precisare alcuni dati in riferimento all’articolo di stampa di cui si diceva prima.
Innanzitutto, il provvedimento in oggetto non è altro che un provvedimento fotocopia di quello emesso durante l’estate del 2022. Davvero curioso che solo ora ci si prodighi a pubblicare una notizia priva di qualsiasi attualità perché inerente provvedimento gemello di altro emesso nell’ambito del procedimento (di prevenzione, e cioè basato su elementi di sospetto e non su prove) a carico mio e di mio marito, che con grandi sacrifici avevamo costruito la nostra attività, “il forno di Francesco Pio” sito a Gioia Tauro.
In secondo luogo, si segnala che questo provvedimento non è assolutamente definitivo in quanto, come quello del 2022, sarà appellato dai miei legali innanzi la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione misure di prevenzione. La confisca dunque è semplicemente di primo grado e non è certamente un provvedimento definitivo.
A questo punto, ci tengo a precisare alcuni concetti che ritengo essenziali: - la mentalità ‘ndranghetista mi fa schifo ed è quanto di più distante dalla mia persona, cosa risaputa da chi mi conosce da sempre. - non conosco e non ho mai avuto a che fare con alcuno ritenuto appartenente alla cosca Piromalli o a qualsiasi altra cosca. - sono incensurata ed ho fatto sacrifici immensi insieme a mio marito ed ai miei figli per avviare il nostro panificio, nel massimo rispetto della legalità. - per quanto mi risulta, non sono mai stata nemmeno indagata nel procedimento Geolia. - pur non condividendoli e contestandoli nelle sedi opportune, ho sempre rispettato i provvedimenti di sequestro emessi dall’autorità giudiziaria con i quali mi è stata sottratta la gestione del forno.
Ciò detto, mi sarei aspettata un contegno diverso da parte di chi gestisce in nome e per conto dello Stato, della legalità e della collettività tutta, nonché da parte di chi procede.
Ho dovuto segnalare, a più riprese, molte disfunzioni occorse durante l’amministrazione giudiziale. Cartelloni pubblicitari pubblicati, con oneri a carico dell’attività, a decine di chilometri di distanza dal luogo dove ha sede il panificio. Clienti che hanno precisato di aver acquistato i prodotti del forno senza ricevere lo scontrino.
Lamentele sul drastico calo di qualità dei prodotti. Pubblicazioni sui social network a dir poco equivoche ed inopportune da parte dell’amministratore giudiziale. Tutto tempestivamente segnalato al Tribunale, che non ha ritenuto di dover adottare alcun provvedimento in merito.
A ciò si aggiunga che la sottoscritta, appena subita l’esecuzione del sequestro della sua attività commerciale, è rimasta a lavorare nel forno in condizioni di sfruttamento alle dipendenze dell’amministrazione giudiziaria.
Dico questo perché pur rimanendo a lavorare sul posto, sotto le direttive degli amministratori giudiziari immessi nella gestione dal Tribunale di Reggio Calabria - sezione Misure di Prevenzione - non sono mai stata regolarmente assunta (sappiamo quello che succede ad un imprenditore privato se viene beccato con dipendenti a nero) e ho quindi dovuto richiedere al giudice del lavoro di accertare di aver prestato lavoro a nero da luglio 2021 a dicembre 2021.
In questo periodo, sono stata sottoposta a massacranti orari di lavoro e non sono stata retribuita pur avendo svolto praticamente tutte le mansioni (da cassiera a fornaia, da banconista a addetta alle pulizie), senza mai fruire di ferie e prima di essere allontanata alla fine del 2021 per “ragioni di opportunità” (così mi fu comunicato dagli amministratori giudiziari).
Fatti per i quali, come ogni comune cittadina che ha sempre e regolarmente onorato i tributi e la legge, ho avviato una causa dinanzi al giudice del lavoro per richiedere di far emergere l’attività svolta in nero alle dipendenze dell’amministrazione giudiziaria e per determinare il pagamento di quanto dignitosamente mi spetterebbe per aver lavorato a nero per lo Stato.
In quel momento, la terribile persona che viene descritta nell’articolo, era stata messa a lavoro da chi i diritti per definizione li dovrebbe tutelare e garantire, privata dei suoi diritti.
Ho deciso di scrivere e chiedere di pubblicare questa nota perché non riesco a stare più in silenzio di fronte a queste continue azioni di demolizione della mia figura e di quella del mio nucleo familiare, basate su ipotesi e su vere e proprie suggestioni che ancora non sono state verificate, ma che mi hanno già da tempo imposto di rinunciare ai frutti dei sacrifici di una vita, oltre che come visto anche al minimo di dignità il cui rispetto sarebbe dovuto a chiunque, anche se indagato, imputato, proposto o terzo interessato in un procedimento di prevenzione.
Alla prima esecuzione del sequestro mi sono state sottratte tutte le risorse, anche i conti correnti personali. Nonostante le richieste, mi è stata negata ogni cosa in attesa della definizione del giudizio. Da anni faccio fronte alle necessità mie e del mio nucleo familiare chiedendo aiuto a parenti e amici per sopravvivere in attesa della definizione dei processi.
Non credevo e non credo tuttora di meritare di essere additata come imprenditrice mafiosa, come è stato fatto nell’ultimo ed intempestivo comunicato nel quale sono stati messi in evidenza il mio nome e quello di mio marito.
Spero che dopo questo mio sfogo, tante persone che, come me, hanno subito vere e proprie ingiustizie da parte di un Sistema che nel proporsi quale tutore della legalità evidentemente ha perso gran parte degli scrupoli imposti dall’esercizio di un’attività delicata come questa, trovino la forza di ribellarsi con il potere della parola.
Maria D'Agostino