Per fare impresa ci voleva il permesso del clan: colpo alla “signoria” dei Piromalli, 12 arresti
Il controllo del territorio di Gioia Tauro passava dalle richieste estorsive e dall’imposizione di costi, periodi di ferie e delle strategie imprenditoriali. Il tutto dietro la consapevolezza degli imprenditori che si assoggettavano alle “signorie” per poter aprire l’attività.
I commercianti dovevano sottostare alle regole dei clan e adeguarsi ai prezzi imposti, ai periodi e alla lunghezza delle ferie, che dovevano essere concordate con le attività commerciali limitrofe.
Insomma, una vera e propria morsa che attanagliava i vari negozi, al punto da costringere piccoli imprenditori a voler fuggire dalla piana per cercare fortuna al Nord Italia.
Così, nel corso dell’operazione Geolja, il cui nome deriva dal primo nucleo abitativo medievale intorno al quale si è esteso l’agglomerato urbano dell’odierno centro di Gioia Tauro, ha consentito di colpire l’organizzazione facente capo alla storica famiglia dei Piromalli (QUI), operante a Gioia Tauro, e di coinvolgere nell’inchiesta anche alcuni esponenti della cosca Pesce di Rosarno (QUI).
Sono in tutto 21 gli indagati di cui 12 arrestati (10 dei quali finiti in carcere e solo due ai domiciliari) e che oggi, a vario titolo ed in concorso, devono rispondere di associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori e illecita concorrenza con minaccia o violenza, con l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso.
GLI ARRESTATI
Dietro le sbarre sono quindi finiti: Salvatore Copelli, di 53 anni, già detenuto presso la Casa Circondariale di Cosenza; Francesco Copelli, 63 anni; Domenico Copelli, 33; Antonio Gerace, 58; Domenico Ragno, 64; Girolamo Piromalli, 41; Domenico La Rosa, 31; Vincenzo La Rosa, 29; Antonino Plateroti, 25; Rocco Molè, 26, già ristretto nella casa circondariale di Bari. Ai domiciliari, invece, Rocco Giovinazzo, di 75 anni e Giuseppe Pesce, di 73.
Gli arresti giungono al termine di una indagine condotta dalla Sezione Operativa della Compagnia Carabinieri di Gioia Tauro, sotto il coordinamento della Dda, tra l’agosto del 2018 ed il maggio del 2020 e che ha potuto contare anche sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia ed altre importanti acquisizioni documentali.
LA GENESI DELL’INCHIESTA
Le indagini partono ad agosto 2018, a seguito dell’incendio di un panificio a Gioia Tauro. Ignoti dopo aver manomesso l’impianto di videosorveglianza di un bar limitrofo, si erano introdotti nel negozio appiccando le fiamme nel punto vendita, nei laboratori e in parte del deposito.
Solo l’intervento dei Vigili del Fuoco di Palmi e dei Carabinieri di Gioia Tauro permise di evitare altre conseguenze.
L’inchiesta è durata fino a maggio 2020 e ha consentito agli investigatori di scoprire l’assoggettamento dei proprietari del forno nei confronti del clan.
Dalle intercettazioni è infatti emerso che sei mesi prima dell’apertura i proprietari del locale sarebbero stati avvicinati da una persona vicina ai proprietari di un altro panificio aperto nella stessa zona.
L’uomo avrebbe minacciato velatamente i fratelli. Dopo il danneggiamento gli imprenditori si sarebbero così rivolti a un uomo di Rosarno per chiedere di fare da tramite con le cosche locali e avviare la “messa a posto”.
Dopo aver chiuso l’attività commerciale per diversi mesi, i due imprenditori hanno richiesto l’accesso a un fondo di solidarietà del Ministero dell’Interno per le aziende colpite da attentati dolosi e poi sarebbero stati autorizzati dalla ‘ndrangheta a riaprire il panificio, subendo sia l’imposizione di prezzi, orari e periodi di ferie, in modo da non danneggiare l’attività concorrente, sia il pagamento del pizzo alla cosca.
I fratelli, tuttavia, se da una parte hanno denunciato l’intimidazione, dall’altra si sono lamentati delle modalità e si sono rivolti a un clan di Rosarno per ottenere l’intermediazione e riaprire l’attività.
L’OCCHIO BIONICO DEL CLAN
A seguito del danneggiamento del forno, gli inquirenti hanno scoperto il controllo del territorio da parte delle cosche che taglieggiavano e controllavano i vari imprenditori locali.
La corresponsione dei proventi delle estorsioni garantiva la copertura idonea alle aziende: una sorta di protezione mafiosa per cui le imprese venivano in un certo senso “regolarizzate” ed autorizzate ad esercitare l’attività.
Alcuni episodi di taglieggiamento sono apparsi anche singolari, come quella avvenuta con la vendita di blocchetti di biglietti per una presunta lotteria per le festività pasquali, dal cui acquisto i commercianti non si potevano esimere per timore di eventuali ritorsioni mafiose.
Come atipica è stato il pagamento di un’altra trance estorsiva, effettuata con la consegna a uno degli esponenti dei Piromalli di 500 euro nascosti all’interno di un panino.
Alcuni commercianti di Gioia Tauro hanno definito il controllo di uno dei membri del clan Piromalli nei confronti della loro attività commerciale, come “l’occhio bionico”: nel senso di sentirsi sempre osservati e spiati dalla criminalità organizzata.
Criminalità che ha dunque imposto una concorrenza illecita con la violenza e la minaccia, con le vittime costrette ad allinearsi sui prezzi delle singole merci, sugli orari di apertura, sui periodi di chiusura e persino su quelli di chiusura.
Di fatto un ambito dove era praticamente azzerata la libera concorrenza e il territorio suddiviso tra le singole famiglie della ‘ndrangheta, come confermato anche dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.
LE INTESTAZIONI FITTIZIE
Gli inquirenti ritengono inoltre di aver dimostrato casi di intestazione fittizia di alcune attività commerciali che, pure essendo gestite da rappresentanti delle cosche locali, erano a nome di altre persone, così da eludere i controlli o aggirare eventuali difficoltà per l’ottenimento di autorizzazioni varie ai fini burocratici.
Nell’ambito dell’attività d’indagine, infine, la Dda ha anche emanato un decreto di sequestro preventivo del capitale sociale e del patrimonio aziendale, nei confronti di sei aziende gioiesi.
Si tratta in particolare di un panificio, un lido, una concessionaria, un distributore di benzina, un autolavaggio ed un’impresa di rivendita di pietre da costruzione.
Si ritiene fossero intestati fittiziamente a soggetti di Gioia Tauro, mentre in realtà gestiti da membri delle consorterie mafiose, così da superare le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale e di agevolare la commissione di reati di riciclaggio.
I NUOVI EQUILIBRI
Dopo l’omicidio del boss Rocco Molè, i clan della piana Piromalli e Molè hanno stretto una sorta di patto di non belligeranza, in cui sono stati delineati nuovi equilibri criminali sul territorio ribadendo il controllo asfissiante del territorio proprio con il settore delle estorsioni.
L’OPERAZIONE, scattata nella provincia di Reggio Calabria ed in quelle di Brescia e Milano, è stata condotta dai Carabinieri del Comando Provinciale del capoluogo dello Stretto e dei Reparti competenti territorialmente, con il supporto dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria, dell’8° Nucleo Elicotteri di Vibo Valentia, del Nucleo Carabinieri Cinofili.
Le indagini sono state coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia reggina, diretta dal Procuratore Capo Giovanni Bombardieri.
L’Ordinanza di applicazione delle misure cautelari è stata emessa dal Gip Valerio Trovato, su richiesta dell’Aggiunto Calogero Gaetano Paci e del Sostituto Giulia Pantano.