Vent’anni fa il delitto coniugi Aversa
Erano le 18:30 del 4 gennaio 1992 quando in via dei Campioni, a Lamezia Terme ,i sicari esplosero 30 colpi di pistola contro il sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e la moglie Lucia Precenzano. Quindici contro Aversa e gli altri 15 contro la moglie. I due stavano per salire su una Fiat 500, ma caddero a terra senza vita. Un'esecuzione mafiosa avvenuta in pieno centro in cità e in pieno giorno. Con tanta gente che passava lungo la via. Qualcuno, udendo il crepitio delle armi da fuoco, pensò all'esplosione di botti natalizi. Solo una persona disse di aver visto tutto e di aver riconosciuto i killer: la giovane Rosetta Cerminara, che si trovava in un palazzo di fronte alla strada in cui avvenne la carneficina. La superteste fece i nomi di Giuseppe Rizzardi e Renato Molinaro (quest'ultimo in passato era stato il suo ex fidanzato). Rosetta Cerminara sarà la testimone chiave del processo, con lei gli inquirenti ripercorsero le fasi prima della strage, con ricostruzioni fatte sul posto, alla presenza della superteste. Per queste rivelazioni, la Cerminara venne anche premiata dall'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che le diede una medaglia d'oro. Le furono garantiti anche la protezione a vita e un posto di lavoro. Nel frattempo Rizzardi e Molinaro furono processati e condannati:la loro accusatrice era riuscita a convincere i magistrati della Dda prima e i giudici della Corte d' Assise di Catanzaro poi a condannare Rizzardi all'ergastolo e Molinaro a venticinque anni.
Ma per conoscere la verità non bastò un solo processo: Rosetta Cerminara, secondo quanto emerse in seguito, aveva spudoratamente mentito. A un certo punto infatti i veri killer confessarono il duplice omicidio: si tratta di Stefano Speciale e Salvatore Chirico, pentiti della Sacra Corona Unita, che confessarono di essere stati assoldati dalla cosca Torcasio per uccidere Salvatore Aversa e la moglie. Quell'investigatore, poliziotto tenace e intransigente, memoria storica nel Commissariato di Lamezia, era diventato troppo ingombrante per l'attività dei clan. La decisione di ucciderlo, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, era stata avallata dai vertici della 'ndrangheta. Il sovrintendente aveva preso di mira ogni componente dei clan, non dava tregua. L'omicidio sarebbe stato una lezione esemplare per punire l'arroganza di un investigatore che usava metodi forti anche con le donne dei boss. Nessun privilegio per loro, capaci di prendere il comando quando i loro uomini si trovavano in galera. Da qui la decisione di trucidare anche la moglie del poliziotto. I due lasciarono tre figli ancora adolescenti, Walter, Giulia e Paolo. Sono trascorsi venti anni da quel duplice omicidio, ma è ancora vivo e indelebile nella mente dei lametini.