Lettere in redazione | Degrado sanitario locale: un carcinoma sociale
Riceviamo e pubblichiamo lettera firmata che descrive l’esperienza negativa nell'ospedale di Crotone dal titolo “Degrado sanitario locale: un carcinoma sociale”:
"Nel corso di quest'ultimo anno da apprendista trafficante d'informazioni mi hanno insegnato che la prima regola della critica giornalistica consiste nel mostrare al lettore "il fatto nudo e crudo". In base a ciò - s'intende facilmente - il buon informatore è colui che, capace di interpretare criticamente la realtà è in grado di dipingerla sulla scia dei più illustri pittori realisti, fornendone quindi un'immagine quanto più somigliante all'archetipo di partenza.
Nel corso di quest'ultimo anno da apprendista trafficante d'informazioni - ironia della sorte - ciò che mi spinge a prendere in mano i pennelli per la prima volta, per scrivere questo articolo, è proprio un "fatto nudo e crudo".
La mattina dell'otto agosto, all'interno nel reparto di oncologia dell'ospedale San Giovanni di Dio di Crotone un linfoma non-Hodgkin ad alto grado di malignità ha portato via mio padre. Muovendo da questa esperienza ciò che mi preme descrivere in questa sede non è tanto il calvario che inevitabilmente comporta la lotta contro un avversario spietato come il cancro quanto il fatto che, paradossalmente, questa divenga quasi un'impresa da infanti se paragonata alla battaglia che avviene quotidianamente contro le strutture atte ad accompagnare il malato nel proprio percorso terapeutico.
In altre parole, ciò che vorrei far trapassare dalla mia testimonianza è che combattere un tumore significa, per lo più, fare i conti con una ben più temibile patologia che coinvolge gran parte dei soggetti che compongono o circondano il microcosmo sanitario, un carcinoma sociale.
A questa altra forma di malattia possiamo dare il nome di macchinizzazione. La sensazione che ho avuto nel vivere l'ambiente ospedaliero locale è stata infatti proprio quella di interagire con le rotelle di un ingranaggio, nella misura in cui ciò che caratterizzava il modo di operare della maggior parte dei suoi componenti attivi - infermieri, medici ecc. - era la banale e cieca obbedienza alle direttive che venivano impartite.
Mi rendo conto di quanto apparentemente tale considerazione, più che allarmare, possa semmai risultare quasi innocua se paragonata alle dure e innumerevoli critiche che buona parte dei miei concittadini è abituata a rivolgere con buona dose di sadismo, nei confronti del loro operato. Se così è mi vedo costretta tuttavia a sottolineare che, proprio in quanto sintomo di una malattia che colpisce il corpus sociale impiegato nel pubblico questa attitudine produce risultati nient'affatto rassicuranti.
Infatti, al contrario di quanto si evince dal sentire comune che tende ad evidenziare l'incompetenza e la propensione all'ozio del personale ospedaliero, la condotta minoritaria, passiva, delegatoria di chi tende sì a fare, ma macchinosamente, senza nemmeno tener conto delle reali esigenze dei soggetti a cui si rivolge, si ripercuote negativamente sulla buona riuscita del servizio sanitario spesso con esiti nefasti per la salute dei pazienti.
Ciò risulta evidente sin dalla macabra efficienza degli addetti ai lavori del luogo di giunzione fra il nucleo ospedaliero crotonese e ciò che ne sta al di fuori: il pronto soccorso.
Mio padre, ex paziente oncologico, nel maggio di quest'anno, vi si recò in preda a dolori lancinanti all'arto superiore destro causati da una recidiva di cui era totalmente inconsapevole. L'ipotesi della recidiva tumorale fu peraltro avvalorata proprio in quella sede da un medico del reparto di Ortopedia che dopo un'attenta lettura delle radiografie, consigliò ai medici del Pronto soccorso una tac toracica immediata ed il ricovero in un reparto diverso rispetto a quello in cui operava.
Per tutta risposta alcuni membri del personale medico esperto del Pronto soccorso - così si definiva una tale pneumologa comprendendo anche l'oncologo interpellato per la consulenza - rassicurarono i miei genitori, sull'inesistenza della patologia, invitandoli a rivolgersi a strutture private ben determinate. Ciò avvenne nonostante l'ostinazione da parte di mia madre nel richiedere il ricovero, per via delle notevoli difficoltà che sarebbero scaturite dalla mancata assistenza medica nei confronti di una persona tanto sofferente da non riuscire a reggersi in piedi.
Costoro erano intenzionati a fare del male o erano semplicemente degli incompetenti? Mancanza di carità o dotta ignoranza? Credo di poter escludere fermamente entrambe le ipotesi. La prima avrebbe avuto come fine quanto meno un tornaconto personale, che risultava essere effettivamente inesistente. La seconda avrebbe invece comportato una scarsa agilità nel procedere con le operazioni necessarie per carpire il problema del paziente, tentativo che di fatto non è mai avvenuto.
Il movente fu, credo, di tutt'altra natura. Esso inerisce alla coscienza politica prima ancora che alla competenza medica. E lo fa per quello stesso meccanismo che ingloba anche gli ospedali - quei luoghi che dovrebbero garantire il miglioramento delle condizioni di vita, più che limitarsi a prevenire la morte occupandosi della malattia solo quando questa si dilata fino al punto più estremo - entro la logica mercantilistica qualità/prezzo.
Il ribasso inesorabile della qualità del servizio ospedaliero è infatti soprattutto frutto dei tagli a cui il sistema sanitario del nostro paese è soggetto da anni. Fu proprio questo «cretinismo economico», nel mio caso, a conferire ad oncologi specialisti la minorità sufficiente per scambiare il linfoma di mio padre per un'ernia cervicale. Sono stati proprio questi tagli, all'interno dell'ambito sanitario più che in ogni altro, a gravare sull'efficienza degli ingranaggi di un meccanismo ormai in tilt, a trasfigurare i contorni della struttura ospedaliera tramutandoli in quelli di un lazzaretto.
È proprio questo tipo di politica la causa non manifesta di questo virus macchinizzante, di questo cancro sociale che logora chi opera nel pubblico. Essa uccide, facendo peraltro ricadere l'intera colpa sull'operato di medici e infermieri, su ciò che di fatto si configura solo come una causa apparente atta a nascondere le falle di un sistema sanitario marcio sin dalle fondamenta.
Ciò tuttavia non deve affatto fungere da alibi per il medico pronto a discolparsi per la propria negligenza, attribuendo la propria mancanza di criterio al forzato adattamento a questo tipo di sistema. Tale politica e oserei dire la legge in generale, non agisce su materia inerte ma su soggetti capaci di reagire ad essa o quanto meno rispettare la norma con cognizione di causa. Citando colui che inventò la critica, in conclusione, inviterei il personale medico ad obbedire - sì - ma ragionare perché «è troppo comodo essere minorenni!»."