Sanità, Crotone: cronaca di un giorno al pronto soccorso

Crotone Salute Antonella Lumeno De Lucia

Riceviamo e pubblichiamo lettera firmata che descrive l’esperienza negativa nell'ospedale di Crotone:

"Arrivammo al pronto soccorso il pomeriggio, il dolore era così forte da far cadere ogni inibizione, lui che era così riservato ed aveva imparato a gestire la sofferenza in modo silenzioso per non dar fastidio, per non creare problemi, ora gridava come se gli fossero inferti colpi di lama tagliente.

Non voleva andare in ospedale e fu duro convincerlo, prima tentai, rassicurandolo che in ospedale gli avrebbero fatto una piccola flebo per fargli passare il dolore e saremmo tornati a casa molto presto, forse per l’ora di cena, poi cercando di spiegare che se la terapia di un mese a base di cortisone ed oppiacei, non aveva prodotto alcun effetto, voleva solo dire che forse non si trattava di una banale ernia cervicale.

Nonostante tutto, chiuso nella stanza con quel poco di fiato che il dolore ancora gli consentiva, gridava: ”non voglio andare in ospedale … non mi fanno niente e tu lo sai” del resto le esperienze passate in famiglia gli davano più che ragione.

Esasperata urlai: “se non vuoi che ti accompagni faccio intervenire il 118 e saranno loro a prelevarti. Questa minaccia insieme all’arrivo di mio cognato e di mia nipote che si erano precipitati dopo la mia telefonata lo convinse ad andare.

Vestirsi per lui era complicato e doloroso ma non volle il mio aiuto, lui era fatto così doveva sempre e comunque farcela da solo.

Giunti nell’atrio del pronto soccorso, cercammo una sedia a rotelle e lo facemmo sedere con grande cautela per evitare che soffrisse ulteriormente, ci dirigemmo verso il box predisposto per l’identificazione e la distribuzione dei codici, ovviamente non c’era nessuno, l’infermiere preposto era impegnato anche in mille altri compiti, per cui dovemmo aspettare un po’, prima che qualcuno si avvicinasse e ci chiedesse le motivazioni della nostra presenza.

Gli spiegammo la situazione, dei dolori lancinanti, della terapia che non aveva prodotto alcun beneficio, anzi i dolori si erano acuiti e soprattutto che si trattava di un ex paziente oncologico, 21 anni prima era stato affetto da una grave forma di linfoma. Dopo aver digitato le informazioni di prassi sul pc, ci diede il nostro codice, giallo disse ed io tirai un sospiro di sollievo perché l’attesa non sarebbe stata così lunga e lo tranquillizzai: “non ti preoccupare ti chiameranno presto”.

Aspettammo nel corridoio non ricordo quanto tempo, Lui seduto sulla sedia a rotelle, si mordeva ogni tanto il labro inferiore per non gridare in pubblico il suo dolore, il volto tirato per la sofferenza ed ogni tanto accennava un sorriso per non farci preoccupare, il braccio penzolante se lo portava su con la mano sinistra, noi tutti appoggiati al muro.

Ogni volta che usciva l’infermiera o qualcuno dalle stanze numerate aspettavamo speranzosi che si facesse il suo nome, ma più passava il tempo e più ci rendevamo conto che quel codice giallo aveva cambiato colore trasformandosi in verde come e perché rimase un mistero.

Stanchi, cominciammo a chiedere del perché non fosse stato ancora chiamato a visita, l’infermiera di turno rispondeva sempre allo stesso modo “non vede che c’è qui , 5 minuti e lo chiamiamo”.

Ormai ci sentivamo presi in giro da quei cinque minuti e discutemmo con la dottoressa e con l’infermiera sorde alle nostre preghiere. Del resto erano scene già viste e riviste mio cognato c’era stato più volte ed anche mia madre.

Finalmente ci fecero entrare, raccontammo nuovamente di come era iniziato, dei dolori che avvertiva, della inefficacia della terapia e che ora eravamo più che mai esasperati.

Lo visitarono, ipotizzarono anche loro un ernia cervicale, gli fecero radiografie ai polmoni e chiesero la consulenza oncologica.

Le radiografie arrivarono dopo poco e ci chiamarono per comunicare l’esito, ispessimento apice polmone destro, nel frattempo era sopraggiunto l’oncologo che visto il referto ci tranquillizzò “non mi sembra un fatto neoplastico, io ne vedo tante di queste radiografie, sarà un fatto risalente alla vecchia patologia”

Salimmo al terzo piano dall’ortopedico di turno, un tipo burbero all’apparenza, conosceva Gigi dai tempi della scuola e si ricordò della malattia avuta in passato, lo visitò e guardando attentamente il viso disse: da quanto tempo hai la palpebra abbassata dell’occhio destro? mentre lui parlava io mi chiedevo che nesso poteva esserci tra l’occhio ed il braccio, vabbè mi dissi non sono un medico, forse i nervi del braccio comprimono l’occhio, sicuramente sarà così.

Mentre lo visitava il suo volto cambiava espressione, facendosi sempre più preoccupata, all’improvviso si sedette di scatto alla scrivania, richiamò la radiografia sul pc ed incominciò a fissare lo schermo borbottando parole incomprensibili, prese un libro e lo consultò freneticamente, con uno scatto nervoso, chiamò in pronto soccorso e dopo qualche minuto lo sentimmo gridare come un pazzo “questo paziente deve essere ricoverato e non qui in ortopedia ma in altro reparto.

Ci guardammo increduli senza capire, chiedemmo timidamente ed angosciati che cosa avesse riscontrato e lui con tono dolce ci disse “temo che sia qualcosa di più di una cervicale, forse il morbo di Pancoast, una neoplasia che colpisce il polmone, deve fare entro stasera una tac toracica ed essere ricoverato, ci salutò accompagnandoci alla porta con un triste “in bocca al lupo”

Momenti interminabili, vuoti, increduli, momenti già vissuti che ritornano. Fummo ricondotti, nuovamente al pronto soccorso, ancora attesa, ma questa volta non ce la facemmo a reclamare il nostro turno, aspettavamo e basta, nonostante il dolore lui mi sorrideva.

Ci fecero entrare, era già buio fuori, seduti e muti, aspettavamo solo di sapere il reparto in cui sarebbe stato collocato, invece, con grande sorpresa, ci comunicarono insieme all’oncologo, che a suo dire aveva guardato meglio le radiografie che era sempre più convinto che l’ispessimento polmonare non era dovuto ad una eventuale neoplasia.

Chiesi chiarimenti in merito a ciò che l’ortopedico aveva ipotizzato e sostenni con forza che una tac andava comunque fatta prima di decidere le dimissioni, vista la mia insistenza, ci fecero accomodare fuori, nell’attesa di trovare un posto disponibile in qualche reparto, mentre la tac era impossibile farla nella serata.

Dopo poco uscì la dottoressa mi prese da parte e disse: guardi signora io sono una pneumologa, ora devo andare, per il cambio turno, stia tranquilla non si preoccupi, gli faccia fare da esterno una tac e risonanza, le assicuro che li farà in tempi più rapidi che da ricoverato e consigliandomi gentilmente le strutture dove portarlo, diede la propria disponibilità ad esaminarle.

Replicai che mi era difficile, sofferente come era condurlo a destra ed a manca per fare esami, avrei preferito il ricovero, “ma signora” rispose risentita, non ci sono posti! vuole che aspetti tutta la notte su una sedia? e comunque ci rifletta su e se ne andò, lasciandomi il dilemma se portarlo a casa o lasciarlo su una poltrona in attesa che si liberasse un posto.

Il dottore che sostituì la dottoressa invece fu ancora più chiaro, quando provai ad insistere perché venisse ricoverato, mi disse con tono alterato: “ha visto che caos che c’è qui non si viene in pronto soccorso per una presunta ernia cervicale, qui si viene per altre cause infarti, ictus etc o con una diagnosi, mortificata per la mia insistenza, in effetti infermieri e medici per far fronte all’emergenze, giravano avanti ed indietro senza sosta nella confusione più assoluta.

Ce ne andammo a casa rassicurati e quasi felici, forse era davvero solo una piccola ernia.

Ovviamente incominciò il calvario, prenotazioni, attese, e lui peggiorava sempre di piu, ogni giorno si scopriva un nuovo sintomo, la febbre, la mano paralizzata, le gambe pesanti, ma dovevamo fare gli esami e nonostante le sue preghiere di non farcela, lo costringevo ad alzarsi, questa volta con il mio aiuto per scoprire ciò che già un ortopedico aveva capito.

Grazie ad una persona speciale che capì il nostro dramma riuscimmo a fare la tac total body in 24 ore, che confermava l’esistenza di una neoplasia, gli promisi che non l’avrei portato più in ospedale qui a Crotone.

Andammo a Catanzaro in ematologia ma anche qui non c’erano posti, avrebbe dovuto viaggiare, cosa impossibile nelle condizioni in cui era.

Ci rivolgemmo ad un professore di Milano che forse ci avrebbe aiutato a farlo ricoverare in una struttura del nord, ma ci tranquillizzò dicendo che i protocolli erano uguali in tutta Italia, necessitava fare biopsia e poi iniziare la terapia, cosa che facemmo appena possibile a Catanzaro.

l’esito tardava ad arrivare e le sue condizioni peggiorarono sempre di più, diventò impossibile gestire la situazione a casa, venni meno alla mia promessa e lo ricoverai in ospedale qui a Crotone, questa volta con l’intervento del 118.

Morì l'otto agosto di quest’anno dopo il primo ciclo di chemioterapia in un reparto misto tra nefrologia ed oncologia in cui difficilmente si esce con le proprie gambe e dove la confusione regna sovrana, il più delle volte quando chiedevi informazioni o aiuto ti sentivi rispondere imbarazzato, dal medico di turno, mi dispiace non sono di questo reparto non conosco suo marito, non posso fare niente.

È morto mentre gli sussurravo all’orecchio siamo orgogliosi di te, siamo stati sconfitti non dalla malattia, ma dal sistema sanità."

Lettera firmata


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