I tartassati di Calabria strangolati tra il business della sanità e della ‘monnezza’
Il quadro “clinico” uscito fuori dal rapporto della Cgia di Mestre è allarmante e soprattutto deprimente. Secondo l’Associazione i cittadini più tartassati d’Italia sono quelli del Sud: nella top ten, Reggio Calabria è al primo posto con un carico fiscale, per famiglia, che supera i 7600 euro annui. Un dato che se fosse analizzato anche negli altri capoluoghi della Calabria, siamo certi non restituirebbe valori tanto diversi da quelli della città dello Stretto. Euro più, euro meno.
L’elemento “allarmante” e “deprimente”, però, non è tanto e solo l’ammontare complessivo delle gabelle a carico dei contribuenti, quanto le cause che l’hanno indotto. L’analisi della Cgia è chiara: a gravare maggiormente sul portafoglio dei calabresi è l’Irpef che, per i profani, è l’imposta sulle persone fisiche applicata a tutti coloro che, in tal senso già fortunati, percepiscano un qualche reddito. Ebbene: sugli oltre 7600 euro a carico del “Signor Rossi” dello Stretto rappresenta oltre il 76 per cento seguita a ruota dalle corrispondenti addizionali regionali e comunali (877 euro), dalla Tari (l’imposta sui rifiuti, 465 euro), dal bollo auto (250) e dalla Tasi (210).
Detto ciò, l’associazione veneta sottolinea come a far lievitare l’aliquota Irpef sia, guarda un po’, il deficit sanitario che, da moderno leviatano alimentato nel tempo da “entità” sovra popolari affaristiche e clientelari, succhia sangue e lacrime dai borsellini di noi contribuenti, per dovere e, soprattutto, per legge chiamati e obbligati a dare di più per comprimerne il disavanzo.
Altro elemento di pressione, poi, sebbene contenuto rispetto al primo, l’imposta sui rifiuti (la Tari), conseguenza anch’essa di “eccessivi costi di gestione delle aziende del settore” - dicono dalla Cgia - e della mancata attuazione di un efficace piano di raccolta differenziata che non consente una contrazione della tariffa e, di conseguenza, costringe gli utenti a coprirne gli sprechi.
In entrambe i casi, insomma, una mala gestione di due servizi primari diventati cause di ansie e sofferenze: un boomerang doloroso che, come sentenzia il rapporto dell’Associazione delle piccole imprese, si è ripercosso inesorabilmente sulle tasche dei cittadini e a tutto vantaggio - aggiungiamo noi - dei portafogli di pochi “eletti” ingrassati alla scodella del nepotismo.
Eppure, per quanto riguarda almeno il capitolo di spesa più consistente, quello della sanità, rispolverando il Piano di rientro calabrese siglato nel 2009, qualche indirizzo utile, allora, si era pure indicato per tentare di correggere la rotta. Tra le Azioni fissate nello stesso Accordo si leggeva a chiare lettere come tra gli obiettivi da perseguire, in tal senso, vi fossero ad esempio le “economie di scala” che sarebbero potute derivare “per effetto del riequilibrio tra le prestazioni rese dal servizio pubblico” dai privati accreditati come anche “dall’adozione di appropriati meccanismi di sinergia tra unità operative o tra Aziende ospedaliere e sanitarie, nonché dall’imposizione di un idoneo tetto di spesa per il personale … che tenga conto della necessità di attivazione di nuove funzioni, laddove sia accertata la possibilità di contenere od abbattere la spesa per la mobilità passiva”.
Un modo chiaro per dire: risparmiamo, ottimizzando l’assistenza sanitaria (pubblica e privata) senza per questo tagliarne i servizi o non offrirne di nuovi. Di anni, intanto, ne sono trascorsi ben sei dalla sottoscrizione del Piano ma di interventi concreti o in linea con le direttive impartite non è che se ne siano visti. Il che ci riporta alla diatriba esplosa un paio di mesi fa tra il commissario Scura e la politica: l’uno determinato a seguire le istruzioni, l’altro a difendere le cosiddette “rendite di posizione”. Almeno così è sembrato.
E intanto la sanità calabrese ha continuato a contorcersi su se stessa e così facendo macinando debito, proseguendo a erogare prestazioni talvolta “eccessive” o “inutili”, alimentando quelle criticità che producono disavanzo. Lo stesso Piano, sempre nel 2009, tra queste evidenziava per esempio “il numero di strutture private” e la loro “scarsa attività e inappropriatezza secondo il DPCM 2001. In alcuni territori - si leggeva - esse superano come numero i presidi pubblici come a Cosenza, o il paradosso di Crotone dove ci sono 6 case di cura private e un solo presidio pubblico”.
L’analisi dell’attività nelle strutture private mostrava poi “che si tratta nella maggior parte di duplicazioni di unità operative di base (chirurgia, ortopedia, medicina, cardiologia) caratterizzate da bassa o bassissima casistica, bassa complessità oltre, come abbiamo detto, inappropriatezza che in alcune strutture supera il 50% di tutti i ricoveri e raggiunge anche l’80%”. Anche nel caso del privato, a parte poche eccezioni, si rilevava “che le unità operative particolarmente inefficienti, ma anche a rischio per la bassa casistica operatoria, sono le branche chirurgiche”, quelle che tra l’altro, aggiungiamo, costerebbero di più alle casse del Servizio sanitario nazionale.
Il piano evidenziava ancora che anche nelle Aziende Ospedaliere la percentuale “di ricoveri inappropriati in regime ordinario” fosse e spesso “fuori dagli standard nazionali e accompagnata da inappropriatezza anche dell’uso del posti letto diurni, peraltro in percentuali anch’esse fuori dalla norma”. L’obiettivo era dunque quello di “ridurre il tasso di ospedalizzazione nelle strutture della regione” prevedendo in tre anni un taglio di circa 100 mila ricoveri ordinari “e un aumento, contestuale, di circa 28 mila ricoveri in day hospital”.
Tant’è ma la giostra nel frattempo ha continuato a girare, producendo esosi “posti letto”, “interventi”, “prestazioni” senza che una ben che minima parvenza di controllo fosse esercitato per dimostrarne necessità, utilità ed efficienza. Intanto, come recitava Totò nella film “47 morto che parla”: “E io pago!”
V.R.