Imprenditori toscani “strozzinati”, il “prestito” se lo scaricavano dalle tasse
Circa 200 i militari fiorentini, tra carabinieri e finanzieri, quelli impegnati nell’operazione denominata “Vello d’Oro” scattata stamani in contemporanea ad un’altra, chiamata invece “Martingala”, e che ha visto nel primo blitz eseguire 14 arresti e sequestrare 12 aziende. Nel secondo i fermati sono stati invece 27 e ben 52 le società a cui sono stati apposti i sigilli.
Quanto all’Operazione Vello d’Oro, in particolare, 11 soggetti sono finiti in carcere e tre ai domiciliari: tutti sono residenti tra la Calabria e la Toscana. Delle 12 aziende sequestrate, invece, cinque hanno sede in Italia e sette all’estero; per quest’ultime è stata avviata un’attività di assistenza giudiziaria internazionale in Slovenia, Gran Bretagna, Austria, Croazia e Romania. Il provvedimento ha colpito pure numerosi conti correnti bancari.
In totale 18 le persone indagate nei cui confronti vengono contestate ipotesi di reato che vanno dall’associazione per delinquere, all’estorsione, al sequestro di persona, all’usura, al riciclaggio ed autoriciclaggio, all’abusiva attività finanziaria e all’utilizzo ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al trasferimento fraudolento di valori. Il tutto aggravato dal metodo mafioso.
LA DENUNCIA DELL’IMPRENDITORE
Il provvedimento giudiziario di oggi è stato emesso a conclusione delle indagini avviate dopo la denuncia di un imprenditore toscano, vittima di un’attività di usura e di minacce che, secondo gli inquirenti, sarebbero state messe in atto da un altro imprenditore, Cosma Damiano Stellitano, calabrese e domiciliato a Vinci, nel fiorentino.
A fronte di un prestito di 30 mila euro la presunta vittima avrebbe dovuto restituire una somma maggiorata di interessi del 17% in un solo giorno (per un importo pari ad oltre 35 mila euro).
Le investigazioni, svolte anche con indagini tecniche e coordinate dal Procuratore Ettore Squillace Greco, applicato alla Dda di Firenze e, più di recente, dal Sostituto Giuseppina Mione, sono state condotte inizialmente dal Ros del capoluogo toscano e, a partire dal novembre 2014, co-delegate anche al Gico della Guardia di Finanza.
Gli inquirenti ritengono di aver scoperto “un sodalizio criminale ben strutturato” di cui avrebbero fatto parte, tra gli altri, soggetti ritenuti legati ad elementi di spicco delle famiglie ‘ndranghetiste dei “Barbaro” e dei “Nirta”, attive nella zona del litorale jonico della provincia di Reggio Calabria.
Il prosieguo delle indagini ha portato ad individuare un’articolata organizzazione di origini calabrese che operava in Toscana ed in Calabria e in diversi Stati europei, come la Slovenia, la Croazia, l’Austria, la Romania ed il Regno Unito.
La tesi è che il tutto sarebbe girato intorno alla figura di Antonio Scimone, considerato a capo di una rete di aziende che sarebbero state costituite ad hoc per generare voluminose movimentazioni finanziare (come il pagamenti di fatture relative a costi considerati fittizi) “strumentali - dicono gli investigatori - per costituire ingenti quantità di denaro contante a disposizione dei sodali, da destinare a nuove attività illecite ovvero da riciclare/reimpiegare in attività commerciali".
I FALSI ACQUISTI DI PELLAME PER RESTITUIRE IL PRESTITO
In pratica: Scimone, con la collaborazione di Stellitano, di Giuseppe Nirta (nipote dell’omonimo capo della ‘ndrina “La Maggiore” di San Luca, ucciso nel 1995) e di Antonio Barbaro, avrebbero fatto confluire in conti correnti esteri intestati a società “cartiere” (che sarebbero tutte direttamente o indirettamente riconducibili allo stesso Scimone ed in gran parte intestate a prestanome) delle rilevanti somme di denaro da riutilizzare come prestiti di denaro contante ad imprenditori conciari toscani, questi ultimi indiziati di essere “ben consapevoli della provenienza illecita del denaro e complici del sistema criminale ideato” dai calabresi.
Gli imprenditori toscani, che sono indagati anche per il reato di riciclaggio, avrebbero infatti restituito ai loro “finanziatori” i prestiti, maggiorati dagli interessi, attraverso il pagamento di false fatture di acquisto di pellame, emesse da una Srl del pisano; fatture che materialmente sarebbero state predisposte dal contabile di fiducia di Stellitano.
La tesi degli inquirenti è che in questo modo gli imprenditori usurati - tre dei quali sono finiti in carcere e altrettanti ai domiciliari - si sarebbero finanziati ottenendo denaro contante da utilizzare principalmente per pagare “in nero” dei dipendenti.
I COSTI DELL'USURA A CREDITO IVA
Gli stessi avrebbero poi fatto annotare in contabilità le fatture false di cui parlavamo e così facendo diminuendo anche gli utili delle loro aziende, pagando quindi anche meno tasse: inoltre registravano un credito IVA fittizio e, quindi, scaricavano sull’erario il “costo” del finanziamento ottenuto illecitamente.
In ultima analisi, il presunto sistema fraudolento così congegnato avrebbe fatto gravare sulle casse dell’Erario il costo del denaro contante ricevuto dagli imprenditori toscani e, di converso, il profitto illecito dei calabresi.
Infatti, il “prezzo” pagato per il finanziamento sarebbe stato di fatto celato sotto forma di Iva corrisposta per il pagamento delle fatture false, imposta poi portata a credito nelle liquidazioni periodiche dagli stessi, mentre le società emittenti dei documenti non avrebbero mai versato l'imposta incassata.
Soffermandosi poi sulla natura degli stretti rapporti che Scimone avrebbe intrattenuto con Nirta e Barbaro, gli investigatori hanno circostanziate l’aggravante del metodo mafioso.