Omicidio Di Leo: chiesta la conferma a 30 anni per il presunto killer
Sarebbe stato incastrato dai guanti di lattiche che, comparati con il suo Dna, hanno consentito agli inquirenti di fare quadrato sul delitto commesso nel 2004.
Il sostituto procuratore generale ha chiesto dunque la conferma della condanna a 30 anni di reclusione per Francesco Fortuna (LEGGI), 37enne ritenuto esponente di spicco del clan Bonavota di Sant’Onofrio, accusato di essere uno dei killer che nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 2004 uccise a colpi di pistola, fucile e kalashnikov, Domenico Di Leo, detto Micu ‘i Catalanu.
Il processo in primo grado si è svolto con rito abbreviato, escludendo così la condanna all’ergastolo.
Il verdetto della Corte d’assise di appello di Catanzaro arriverà il 27 febbraio al termine delle repliche degli avvocati della difesa, Salvatore Staiano e Sergio Rotundo.
LE INDAGINI, coordinate dal procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri, sono partite a seguito del taglio di mille ulivi. Accadde nel 2011 e l’azione fu una sorta di estorsione ai danni di una cooperativa con scopi benefici gestita anche da religiosi a Stefanaconi, conclusasi con l’arresto dei vertici del clan Bonavota.
Ma ad incastrare Fortuna, finito in manette il 13 gennaio 2016 (LEGGI), furono proprio quei guanti in lattice che comparati con il suo dna fecero ritenere agli inquirenti di essere arrivati al presunto assassino. All’epoca dei fatti vennero trovati anche 45 bossoli di fucile, pistola e kalashnikov.
All’arresto hanno contribuito le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, che ha raccontato come Fortuna fosse solito nascondere in tasca i mozziconi di sigaretta perché nessuno potesse risalire al suo Dna.
L’attività di indagine ha permesso di ricostruire tutta la vicenda che ha portato all’eliminazione di Di Leo, divenuto “pedina” scomoda per il suo clan.
Tuttavia, sempre secondo gli inquirenti, l’omicidio sarebbe maturato anche per altre motivazioni. Come le frizioni che emerse all’intero del clan Bonavota e che hanno poi portato all’eliminazione di diversi suoi componenti.
E non solo, perché Di Leo avrebbe offeso uno dei Bonavota, intrattenendo una relazione sentimentale con la cugina. A questo si aggiungono gli interessi economici, e lo sgarbo dello stesso Di Leo che, qualche giorno prima dell’omicidio, che avrebbe “cacciato” gli operai che, per conto di Domenico Bonavota, dovevano effettuare gli scavi per la realizzazione di un bar nella zona industriale di Maierato, da intestare alla moglie di Nicola Bonavota e Rosa Serratore.
La vittima, inoltre, era ritenuta responsabile del collocamento di un ordigno che aveva distrutto una concessionaria di autovetture ubicata allo svincolo autostradale di Sant’Onofrio.
E poi ci sarebbe stato il timore che Di Leo potesse attuare azioni nei confronti di altri esponenti del clan, in ragione della sua caratura criminale e della “voglia” che stava maturando di imporsi nell’ambito della consorteria e sul territorio.