I blitz non fermarono il clan Iannazzo, gli affari li curava la moglie del boss

Catanzaro Cronaca

Otto persone sono finite in arresto - sei in carcere e due ai domiciliari - poiché accusate a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti, detenzione di armi da fuoco. Sequestrate anche una società di autonoleggio e una denaro per poco meno di 8 mila euro.

L'indagine - condotta dai Carabinieri di Lamezia Terme dal giugno 2020 al settembre 2023, attraverso attività tecniche ed arricchita da emergenze di altri procedimenti penali riguardanti fatti accaduti nell’anno scorso – avrebbe portato ad appurare una perdurante operatività della cosca Iannazzo, in una fase successiva all’esecuzione di alcune importanti operazioni di polizia che hanno condotto, il 14 maggio 2015 (QUI) e il 22 febbraio 2017 (QUI), alla decimazione del clan Iannazzo-Cannizzaro-Daponte.

Il peculiare momento storico inquadrato dall'inchiesta è quello successivo agli arresti dell’operazione Andromenda (QUI), che inferse un durissimo colpo alla cosca, ed il successivo sforzo di quest’ultima nel riorganizzarsi e riprendere le proprie attività.

Sforzi che sarebbero stati resi più complicati da eventi dannosi per la vitalità del clan, come il passaggio in giudicato delle sentenze di condanna del capocosca e la detenzione degli altri consociati.

La moglie del boss

In questo momento di fibrillazione del gruppo, sarebbero state fondamentali le figure della moglie del boss e di uno dei suoi uomini più fidati, mai coinvolti nelle precedenti vicende giudiziarie.

Sarebbero stati loro a farsi carico di fronteggiare la carenza momentanea di risorse economiche e la necessità di rinvenire fondi per sostenere le spese legali e di sostentamento dei carcerati, raccogliendo denaro da soggetti estorti o conniventi e conducendo attività economiche intestate fittiziamente a terzi.

L’organizzazione, attiva nei quartieri di Sambiase e Sant'Eufemia di Lamezia Terme (comprensiva dell’area industriale), in una composizione soggettiva più ridotta a causa della detenzione della maggior parte dei consociati, tramite la moglie del capocosca, avrebbe in pratica continuato a esercitare il controllo del territorio, intervenendo nei litigi e nelle controversie tra privati o assicurando “protezione” dall’aggressione al patrimonio e all’incolumità personale, e a compiere estorsioni e usure, reinvestendo i capitali in aziende di comodo gestite in maniera occulta, ma di fatto formalmente intestate a terzi “fittizi”.

I proprietari occulti

Sarebbe anche emerso che il gruppo mafioso, anche per evitare le leggi sulle misure di prevenzione patrimoniali, avrebbero attribuito le quote di una società di autonoleggio, presente nella zona dell'aeroporto, a un presunto prestanome che l’avrebbe gestita coadiuvato dalla moglie, dipendente dell'impresa, “eseguendo le direttive e operando sotto il controllo dei proprietari e amministratori occulti, che mensilmente raccoglievano i dividendi provento dell'attività”, sostengono gli inquirenti.

Alcune direttive sulla gestione degli affari di famiglia, provenivano anche dal carcere, dove il figlio del boss sarebbe riuscito a comunicare all’esterno con un cellulare che teneva nascosto in cella.

Agli atti del fascicolo, sono presenti degli episodi di estorsioni, di cui l’ultimo in ordine di tempo, tentato ai danni di un imprenditore edile che aveva appena comprato un capannone nell'area industriale.

In un'altra occasione, gli arrestati, con minacce esplicite e implicite di azioni violente in caso di rifiuto, che sarebbero state eseguite da esponenti della cosca, avrebbero costretto un debitore dell'autonoleggio a pagare una somma superiore a 2.150 euro come riscossione di un credito controverso senza ricorrere ad azioni legali.