Ucciso e bruciato a Lamezia, aperto il processo d’appello

Catanzaro Cronaca

Si è aperto con la drammatica confessione di uno degli imputati il processo di secondo grado per l'omicidio pluriaggravato di Roberto Amendola, il giovane di 23 anni ucciso il 13 novembre del 2008 a Lamezia Terme, il cui corpo venne trovato bruciato all'interno di un'auto data alle fiamme. Davanti ai giudici della Corte d'assise d'appello di Catanzaro, Aldo Notarianni, 45 anni, già condannato all'ergastolo per il brutale assassinio, ha rilasciato dichiarazioni spontanee assumendosi la responsabilità dell'omicidio e chiedendo perdono alla famiglia della giovane vittima. Poi il processo è stato rinviato al 10 luglio per la requisitoria del sostituto procuratore generale.

Il giudizio di secondo grado si sta svolgendo anche per altri due imputati: Domenico Giampa', 30 anni, pure condannato all'ergastolo e, come Aldo Notarianni, all'isolamento diurno per un anno, nonché Aurelio Notarianni, 47 anni, che in primo grado è stato assolto e per il quale è stato l'Ufficio di procura a proporre appello, a differenza che per gli altri due per i quali l'impugnazione è stata proposta dalla difesa (gli avvocati impegnati sono Francesco Gambardella e Giuseppe Spinelli per Aldo Notarianni, Saverio Loiero per Giampà, Tiziana D'Agosto e Salvatore Staiano per Aurelio Notarianni). Per tutti la sentenza di primo grado è giunta il 21 giugno del 2012 dalla Corte d'assise di Catanzaro, che ha riconosciuto colpevoli Aldo Notarianni e Domenico Giampà - per i quali i giudici hanno fatto tuttavia cadere l'aggravante del metodo mafioso -, condannandoli inoltre a risarcire il danno alle parti civili (padre, madre e sorella della vittima, costituiti con gli avvocati Angelo Bonifiglio e Barbara Friuli del Foro di Messina) cui, in attesa della liquidazione definitiva, sono andate provvisionali di 50.000 euro a testa, ed ha assolto Aurelio Notarianni, per il quale pure il pubblico ministero aveva chiesto l'ergastolo come per gli altri. Gli imputati sono stati chiamati a rispondere di un delitto atroce, dal momento che contro il giovane Amendola, la sera di quel 13 novembre, furono sparati due colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa ma senza ucciderlo tanto che, secondo le accuse, egli sarebbe stato ancora in vita quando i suoi killer gli diedero fuoco all'interno di una Lancia Y.

Non a caso le aggravanti della premeditazione, della crudeltà e delle sevizie compaiono nel capo d'accusa di omicidio volontario contestato ai tre imputati, che finirono in manette circa nove mesi dopo il delitto, a seguito delle indagini dei carabinieri che giunsero a loro soprattutto grazie ad alcune intercettazioni effettuate nell'auto di Amendola, il quale era a sua volta sotto controllo per via del suo ipotizzato coinvolgimento in una serie di rapine. L'omicidio di Amendola, secondo la tesi degli inquirenti, sarebbe stata la risposta della sua ambizione di entrare da "autonomo" nel racket delle estorsioni, motivo per cui il giovane aveva deciso di munirsi di una pistola, chiedendo proprio agli imputati di aiutarlo a trovarla. (Agi)