Rossano, Montesanto (Slow Food): recuperare piatti della memoria a scuola
Da “u sozizz eri pezzent” alle “palluttelle i rosamarina”, dai “quinullilt” di tradizione arbereshe al bicchiere di vino rosso ottenuto dalle uve coltivate nella “difisa”, dalle formule auguranti recitate davanti al fuoco del camino ai 13 tipi di frutta da portare in tavola. Ci sono parole, suggestioni e ricette che, da sole, sono capaci di rievocare atmosfere, sapori e tradizioni. Non è festa, se mancano sulla tavola. Eppure, qualche ricetta, così come qualche usanza, sembra essere in via d’estinzione. Al recupero della memoria a tavola, ci pensano gli studenti del polo scolastico alberghiero-agrario dell’istituto d’istruzione superiore “Ettore Majorana” di Rossano.
Gli studenti hanno portato il loro contributo in occasione del Terra Madre Day portato a scuola dalla condotta Slow Food Sibaritide Pollino guidata dal fiduciario Lenin Montesanto che ha colto l’occasione per complimentarsi con i ragazzi per il lavoro di ricerca e recupero portato avanti.
Con questa attenzione alle tradizioni enogastronomiche locali – dichiara Montesanto - la scuola offre un contributo prezioso e strategico alla riappropriazione della propria storia, delle proprie risorse e del proprio futuro. Passa da qui la costruzione quotidiana dello sviluppo sostenibile dei territori. Si fa più politica così, a tavola, che non nei comuni o in parlamento!
Mia nonna – scrive Fortunato Attadia della II C - mi ha raccontato spesso della sua vita passata. Ci ha tramandato molte cose, persino i sapori legati a momenti particolari della sua vita. Ancora adesso mia madre propone alcune pietanze che la nonna le ha magistralmente insegnato, come “U sozizz eri pezzent”, la salsiccia dei poveri che si prepara con fegato di maiale, polmone, grasso, aglio, pepe rosso e sale. Il tutto viene impastato e passato nell’intestino. Cotta con il finocchietto selvatico oppure con lagane e ceci.
Il nonno di Simona Debora della Va, insieme agli altri marinai, partiva a notte fonda per andare “a mare” e arrivare a destinazione il mattino successivo. Le prospettive della nottata erano quelle di riuscire a riempire la barca di pesci. Arrivati a destinazione si calava la rete e si lasciava in acqua per molte ore. I pescatori andavano sulla spiaggia per scaldarsi con il fuoco oppure andavano in ricoveri di fortuna. Dopo molte ore si ritornava in mare e si ritirava su la rete. In questo periodo dell’anno (novembre, dicembre) si pescava molto il “vucca lupo”, la sardella neonata.
Dopo la pesca partiva per ritornare allo “scario” e tutte le mogli dei pescatori si recavano sulla spiaggia per aiutare i propri mariti a sistemare il pescato nelle cassette che allora erano ancora di legno e li aiutavano a ripulire la rete dalle rimanenze del pescato. Al ritorno a casa sulle tavole delle famiglie era tipico preparare e consumare piatti con il pescato del giorno precedente: piatto tipico “palluttelle i rosamarina”.
Ancora oggi, nei paesi albanesi come Vaccarizzo e San Cosimo – è la testimonianza di Antonio Morello della II A - restano vive e sentite tutte le tradizioni antiche. Gli abitanti di preparano festosamente e con anticipo alle ricorrenze di Natale e Pasqua, preordinando le pulizie generali della casa e confezionando i caratteristici dolci casalinghi, con pasta all’uovo, uva passa, noci e mandorle. A Natale, tradizionalmente, se non si è di lutto e per non fare “malaugurio”, si deve mettere sul fuoco il tegame per friggere Krustoli, quinullilt, cugliec e pasta Kumbeten.
Tutti questi dolci, dopo essere stati fritti, vengono immersi e cosparsi di confettini colorati. È necessario che ci sia un maschio a calare nel tegame il primo dolce, per vedere se l’olio è pronto, e far friggere il resto degli impasti, evitando che l’olio si consumi oltremisura. Al termine della frittura, si attacca al muro del focolare un pezzetto di pasta pronunciando l’augurale: “ma mire mote se so sot” che si traduce in “domani meglio di oggi”. Oltre ai dolci, ci sono alcune pietanze tipiche che arricchiscono il cenone di Natale: gli spaghetti con i broccoli, che anticamente si preparano con pasta fatta in casa, “fillilt”, si cucina il baccalà in umido e fritto “bakallat me pumbadnora ote diganisur”, si friggono i broccoli immersi nella farina impastata con uova e per finire vengono servite le tredici varietà di frutta. Il tutto è innaffiato col generoso e robusto vino rosso delle diffise o della zona del ribello.