‘Ndrangheta. Cosca Fontana, sequestrati e confiscati beni per 27 milioni
Un ingente patrimonio, del valore di circa 27 milioni di euro e ritenuto riconducibile a cinque soggetti appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta Fontana di Reggio Calabria è stato sequestrato e confiscato stamani dagli uomini della Guardia di Finanza.
I beni oggetto del provvedimento farebbero capo ad un imprenditore reggino, Giovanni Fontana, considerato a capo dell’omonima cosca, e ai suoi quattro figli, Francesco Carmelo, Antonino, Giandomenico, Giuseppe Carmelo, attualmente tutti in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso e trasferimento fraudolento di valori aggravato dalle finalità mafiose.
Con una mirata attività di indagine e attraverso analisi economico-finanziarie, gli uomini delle fiamme gialle avrebbero accertato “una palese sproporzione” tra l’ingente patrimonio e i redditi dichiarati dall’indagato, tale - sostengono - da non giustificarne la legittima provenienza.
I sigilli sono così scattati a cinque imprese, 14 fabbricati, 20 terreni, 43 automezzi e diversi rapporti finanziari. Irrogata anche la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale nei confronti dell’imprenditore (per 5 anni) e dei figli (4 anni per Antonino e 3 anni per gli altri).
L’indagine è stata eseguita sotto il coordinamento della Procura della Repubblica ed il provvedimento è stato emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale.
I DETTAGLI DELL’INDAGINE
I finanzieri del Gico, nel corso delle investigazioni hanno acquisito numerosa documentazione (contratti di compravendita di beni immobili, di quote societarie, atti notarili, ecc.) con la quale hanno cercato di ricostruire ogni singola operazione economica effettuata dalla famiglia Fontana ed approfondendo le movimentazioni finanziarie dell’imprenditore e di figli, movimentazioni che nel corso dell’ultimo trentennio - cioè dal 1980 al 2011 – avrebbero consentito quello che gli inquirenti definiscono “un arricchimento decisamente anomalo, se rapportato alla lecita capacità reddituale dichiarata dai soggetti.
In questo contesto si sono presi in considerazione i le informazioni scaturite dalle operazioni della Dda “Olimpia” e “Athena” che avrebbero accertato una presunta continuità tra il passato ed il presente della cosca Fontana e la sua operatività, con una posizione dominante proprio del capofamiglia Giovanni.
IL GRUPPO SEPARATISTA E LA 2° GUERRA DI MAFIA
“L’elevato spessore criminale di quest’ultimo - sostengono gli investigatori - è, tra l’altro, testimoniato dalla sua partecipazione, in seno alle consorterie della 'ndrangheta reggina, a gruppi organizzati di stampo mafioso nonché dal suo ruolo e dalla sua militanza tra le file del cosiddetto “gruppo separatista” che, per i gravi fatti di sangue commessi, ha sconvolto la città di Reggio Calabria negli anni 1985/1991”, in pratica la cosiddetta “seconda guerra di mafia”.
Nello specifico, Fontana, dopo una prima fase della guerra di mafia, durata fino al gennaio del 1988 e nel corso della quale avrebbe rivestito la carica di uno dei capi dello “schieramento antidestefaniano”, sarebbe entrato in ombra per l’assunzione diretta della regia delle operazioni “belliche” da parte di Pasquale Condello (66 anni), detto il “Supremo” e scarcerato nel gennaio dell’88, continuando però a guidare l’omonimo raggruppamento criminale.
Nella successiva fase della seconda guerra di mafia, invece, lo sempre Fontana avrebbe avuto un “ruolo superiore rispetto a quello di capo dell’omonima consorteria mafiosa ponendosi al vertice di una federazione tra le cosche Condello, Fontana, Rosmini, Imerti, Serraino (lo schieramento cosiddetto ‘antidestefaniano’) impegnate nella lotta per il predominio sulla città di Reggio Calabria”.
Sempre secondo la tesi degli inquirenti, nel corso degli anni, inoltre, Giovanni Fontana, nonostante la carcerazione e la latitanza, tramite dei figli e di altri soggetti insospettabili sarebbe riuscito a mantenere una posizione di rilievo all’interno del panorama delle cosche reggine interessate ad accaparrarsi risorse pubbliche e profitti illeciti, anche mediante l’infiltrazione nel lucroso settore delle società miste, considerato dalla 'ndrangheta uno tra i più redditizi e, allo stesso tempo, indispensabile per attuare il pieno controllo mafioso delle attività economiche.
LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI, IL BUSINESS DELLE “MISTE”
Dall’operazione “Athena” sarebbe emerso che la cosca Fontana sarebbe riuscita, tramite la compiacenza degli stessi gestori, ad assicurarsi il controllo di una delle società miste partecipate dal Comune di Reggio Calabria, la “Leonia Spa” azienda che si occupa del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani.
La cosca, grazie al ‘permesso’ degli altri clan reggini, affermano i militari, avrebbe così acquisito il controllo delle attività economiche legate al settore dello smaltimento dei rifiuti, della distribuzione di carburante oltre che della raccolta delle somme necessarie per il pagamento delle tangenti da corrispondere alle altre cosche che avrebbero preteso la loro parte una volta resesi conto della rimuneratività di tali affari.
Sulla base di questi elementi e alla luce della ricostruzione economico-finanziaria svolta dai militari, il Tribunale di Reggio Calabria ha qualificato le imprese confiscate come rientranti nel genus dell’“impresa mafiosa” in quanto, in relazione alle stesse, sussisterebbero “plurimi e convergenti elementi di fatto che - scrivono i magistrati - consentono di sostenere che le società, a prescindere dalla provenienza delle risorse genetiche, che tuttavia nel caso in esame deve escludersi, si siano progressivamente ampliate e siano cresciute fino a diventare la realtà economica fotografata nelle indagini solo grazie alla personale attività dei proposti che sono così riusciti ad ottenere la stipula di contratti e aggiudicazioni del tutto al di fuori delle libere logiche concorrenziali attraverso lo sfruttamento delle proprie conoscenze”.