Esplosivo C4 utilizzato per conto della ‘ndrangheta, 8 arresti nel reggino
Otto persone sono state arrestate nella notte scorsa con l’accusa di associazione di tipo mafioso, detenzione, vendita e cessione di sostanze stupefacenti; detenzione, trasporto e cessione di esplosivo bellico di tipo "C-4", estorsione aggravata dalle modalità mafiose.
L'ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal Gip di Reggio Calabria su richiesta della locale Dda (Direzione distrettuale antimafia) ed eseguita dai carabinieri del Comando provinciale. Il blitz di stanotte rappresenta la naturale prosecuzione dell'operazione “Tnt” del 9 aprile 2014.
Secondo gli inquirenti gli arrestati sarebbero esponenti della cosca “Franco” di Reggio Calabria e per conto loro era stato detenuto l'esplosivo sequestrato che, per tipologia e confezionamento, è stato attribuito a quello trasportato, durante la Seconda Guerra Mondiale, dalla una nave militare “Laura C” che si inabissò, davanti alle acque reggine, nel Mar Jonio.
Il relitto della Laura C è stato spesso oggetto di azioni di depredazione anche da parte della 'ndrangheta, allo scopo di potenziare i suoi arsenali. L'esplosivo in questione, il famigerato C4, è stato impiegato anche per confezionare ordigni rudimentali utilizzati dalla criminalità in numerosi episodi e attentati.
Oltre agli arresti, i militari stanno eseguendo un decreto di sequestro preventivo in via d'urgenza, emesso sempre dalla Dda reggina, di alcune imprese (in particolare quote sociali, patrimonio aziendale e conti correnti), numerosi immobili, beni mobili, autoveicoli e mezzi d'opera, rapporti bancari e prodotti finanziari: il tutto per un valore che ammonta complessivamente a circa 10 milioni di euro.
LA PREMESSA
14:48 l L’operazione è la prosecuzione dell’inchiesta “TNT” che lo scorso aprile, ha portato all’arresto di 10 persone. Durante il blitz di aprile sono stati arrestati Domenico Demetrio Battaglia e Damiano Roberto Berlingeri. Nell’aprile del 2012, in occasione di una perquisizione domiciliare, i Carabinieri hanno arrestato Battaglia per detenzione di tritolo. Gli agenti dell’Arma avrebbero infatti trovato nella sua abitazione 10 formelle dell’esplosivo, per un peso complessivo di oltre 2 Kg., di 5 detonatori e di numerose munizioni di diverso tipo e calibro.
Il tritolo sarebbe dello stesso tipo di quello rinvenuto nelle stive della nave “Laura C” affondata durante l’ultimo conflitto mondiale, nei fondali antistanti Saline Joniche. Questo ha fornito l’input per avviare le indagini volte ad individuare la provenienza del materiale.
IL COINVOLGIMENTO DELLA ‘NDRANGHETA
All’epoca gli inquirenti avevano il sospetto che il tritolo fosse stato sottratto ad una potente cosca di ‘ndrangheta operante nella zona sud di Reggio Calabria. Quella prima attività investigativa aveva difatti evidenziato il presunto collegamento di alcuni dei personaggi coinvolti nelle vicende in esame, con rilevanti figure della criminalità organizzata, tra cui esponenti dell’importante cosca “Franco”, egemone nell’area sud di Reggio Calabria ed in particolare nella località “Pellaro”.
La ricostruzione dei legami relazionali e delle dinamiche associative riscontrate nel corso delle indagini, sarebbe partito proprio dal ritrovamento del tritolo a casa di Battaglia.
Le immediate investigazioni avrebbero consentito di scoprire un gruppo dedito alle rapine, traffico di armi e droga e i cui principali componenti sarebbero stati tutti individuati con l’operazione “TNT” dello scorso aprile 2014. L’operazione avrebbe inoltre permesso di scoprire che Battaglia e Berlingieri avrebbero sottratto l’esplosivo alla cosca “Franco” strettamente federata alla cosca “Tegano” del centro città. Una volta sottratto, il tritolo sarebbe finito nelle mani anche di Stefano Porchi, nipote di Battaglia che avrebbe dovuto nasconderlo e custodirlo.
La cosca Franco avrebbe individuato i due responsabili della sottrazione del tritolo; nonostante l’invito a restituire immediatamente il maltolto (invito avanzato direttamente da Giuseppe Franco, alias “Zio Pino”, fratello del capocosca Michele) avrebbe dato incarico a due accoliti di “convincere” i due. È a questo punto che sarebbero entrati in gioco Giovanni Ambroggio detto “marbizza” e Filippo Gironda che, sulla base del racconto ricco di particolari effettuato da un altro arrestato (Giuseppe Zampaglione), dopo aver caricato a forza i due su un fuoristrada, li avrebbero condotti all’interno di un capannone di Gironda e li avrebbero picchiati, convincendoli così a restituire il tritolo alla cosca, restituzione che tuttavia non sarebbe avvenuta a causa dell’intervento dei Carabinieri che trovaromo poi il tritolo a casa di Battaglia.
IL RUOLO DELLE DONNE IN SENO ALLA ‘NDRANGHETA
Nel corso dell’attività tecnica, emergeva poi il ruolo che Giuseppa Franco, figlia del capocosca Michele nonché moglie di Consolato Carmelo Murina (altro presunto elemento di assoluto vertice in seno alla ‘ndrangheta reggina) che avrebbe iniziato ad assumere il ruolo di leader nel periodo in cui sia il padre che il marito si trovavano in stato di detenzione carceraria.
Sarebbe stata proprio la donna a gestire e dirigere gli affari della famiglia. Ed infatti, è alla donna che Massimo Piccolo e Massimo Murina (quest’ultimo cugino di primo grado del marito Consolato Carmelo Murina) avrebbero consegnato i proventi dell’attività di spaccio di stupefacenti che loro stessi, nel corso delle intercettazioni, definivano “i soldi della ‘ndrangheta”. Così come la stessa donna, avrebbe offerto a Murina anche la gestione dello spaccio dell’eroina e dello sfruttamento della prostituzione. Business rifiutati da Murina sia perché, a suo dire, l’eroina sarebbe stata troppo pericolosa, sia perché a suo modo di vedere lo sfruttamento della prostituzione sarebbe stato un affare “infamante”; per questo Murina avrebbe chiesto di continuare a lavorare per la cosca, ma solo nel campo del traffico di sostanze stupefacenti del tipo leggero: “… questo è pericoloso… gli ho detto io non mi parlate affatto no di Puttane, no di… Inc… , gli ho detto io solo di erba mi dovete parlare a me…” .
In realtà, Murina, che avrebbe auspicato la liberazione del cugino Consolato Carmelo, sarebbe risultato insofferente a prendere ordini da Pina Franco alla quale tuttavia avrebbe riconosciuto, in quel dato momento storico, un ruolo apicale e, seppur con qualche ritardo, le avrebbe portato periodicamente gli incassi delle illecite attività. Così, ad esempio, è quando le microspie dei Carabinieri hanno registrato l’insofferenza dell’uomo mentre insieme a Massimo Piccolo avrebbe consegnato una cifra che si aggirava attorno ai 12 mila uro, derivata della loro presunta attività di spaccio: “che mi caco il cazzo di andare da questa, da Pina io, per raccontargli per raccontargli, per fargli e per dirgli….quanto gli saliamo 12 (dodici)?.....qualche 13 (tredici) e passa, penso…inc... qualche altre 8000(ottomila)”.
IL VOLTO IMPRENDITORIALE DELLA COSCA
Filippo Gironda rappresenterebbe il volto imprenditoriale della cosca Franco-Murina. Pienamente inserito nelle dinamiche criminali dell’organizzazione mafiosa, si sarebbe adoperato al fine di rafforzarne il prestigio fornendo alla stessa supporto economico e logistico. Numerosi sarebbero stati i contatti telefonici nonché gli incontri tra Gironda e Franco Giuseppa detta “Pina”.
Le intercettazioni hanno rivelato un rapporto di subordinazione di Gironda nei confronti della famiglia Franco che, in quel determinato momento storico, dato lo stato di detenzione del marito e del padre, sarebbe stata rappresentata proprio da “Pina”. In più occasioni, Gironda sarebbe stato “invitato” da Pina Franco a recarsi presso la propria abitazione. Analogamente, anche lo stesso Michele Franco, nel corso di alcuni colloqui in carcere, si sarebbe preoccupato di sapere dalla figlia Pina se “il compare si è fatto vedere”, facendo chiaro riferimento al Gironda.
La figura di Gironda era anche emersa durante un’altra attività di indagine al termine della quale, il 13 maggio 2009, i Carabinieri di Locri hanno denunciato alla DDa 103 persone, ritenute a vario titolo responsabili del reato di associazione mafiosa. Secondo gli inquirenti avrebbero fatto parte, nei periodi e con le funzioni ed i ruoli loro specificatamente demandati, di un’associazione di tipo mafioso, finalizzata - mediante la forza di intimidazione del vincolo associativo e di omertà che ne deriva - alla commissione di una serie indeterminata di delitti (omicidio, rapine, estorsioni, riciclaggio, furti, ricettazione e falsificazione di documenti, truffa, usura, detenzione e porto illegale di armi ed altro) e all’acquisizione in modo diretto o indiretto, presso gli enti pubblici territoriali e non, della gestione o del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi mediante turbativa d'asta, all'illecito controllo dei relativi organi amministravi, al fine di trarne profitti o vantaggi ingiusti per se stessi o per altri componenti dell’associazione criminale.
Le indagini culminate nell’operazione denominata “Saggezza” ha portato, oltre che a 39 ordinanze di custodia cautelare in carcere, anche alla emissione di numerosi avvisi di garanzia a carico di altrettanti indagati alcuni dei quali, successivamente sono stati rinviati a giudizio. Tra questi figura Filippo Gironda, che risulta essere stato indagato per falso ideologico e abuso d’ufficio, frode nelle pubbliche forniture con l’aggravante di avere commesso il fatto al fine di agevolare l’associazione mafiosa di riferimento.
Dalla lettura di quel provvedimento si evincerebbe come Gironda avrebbe addirittura preso parte ad un summit di mafia nel corso del quale si sarebbe discusso, tra le altre cose, anche della spartizione di affari ed al quale avrebbero partecipato i vertici di diverse famiglie di ‘ndrangheta tra cui Nicola Romano , “capo locale” di Antonimina (RC). Le attività di indagine consentirono di accertare che la riunione di ‘ndrangheta in questione avrebbe avuto luogo all’interno di un’abitazione riconducibile ad alcuni zii di Filippo Gironda, la cui casa si trova all’incirca 200 metri più a valle rispetto il luogo dell’incontro.
Filippo Gironda, le cui attività imprenditoriali e gli interessi economici si sviluppano in un territorio ed un settore fortemente tipizzato dalle infiltrazioni criminali, rappresenterebbe il mezzo attraverso il quale l’organizzazione mafiosa riesce ad inserirsi tra i gangli dell’imprenditoria, divenendo egli stesso “gestore” delle risorse delle cosche clan.
I SEQUESTRI
Contestualmente all’esecuzione dei provvedimenti, i Carabinieri hanno dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo in via d’urgenza emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, di alcune imprese (quote sociali, annesso patrimonio aziendale e conti correnti), numerosi immobili tra cui un abitazione in villa, beni mobili, autoveicoli e mezzi d’opera, Rapporti Bancari e Prodotti Finanziari, per un valore complessivo di circa 10 milioni di Euro, beni tutti riconducibili all’imprenditore pellarese Filippo Gironda, considerato il volto imprenditoriale della cosca.
Tra i beni sequestrati ci sono: l’impresa individuale denominata “G.F. Costruzioni Lavori edili e stradali di Gironda Filippo di Giuseppe“; quote relative all’impresa denominata “Gicos S.R.L; due abitazioni a Reggio Calabria; un’autorimessa nella città dello Stretto; quattro terreni nel capoluogo di provincia; una dozzina di autovetture, motocicli e mezzi d’opera.
Nel corso dell’operazione sono stati impiegati una cinquantina di Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dai militari dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria.
GLI ARRESTATI
Giuseppa Franco, 43 anni di Pellaro; Giuseppe Franco, detto “Zio Pino”, 63 anni di Pellaro; Giovanni Ambroggio, detto “Marbizza”, 42 anni di Pellaro; Filippo Gironda, 39 anni di Pellaro; Stefano Porchi, 35 anni di Pellaro; Massimo Murina, 35 anni di Reggio Calabria, in atto detenuto, già tratto in arresto nel corso dell’operazione TNT e già condannato in 1° grado alla pena di anni 8 mesi 4 di reclusione ed euro 2.000 di multa; Giuseppe Zampaglione, detto “Peppe”, di 39 anni di Montebello Jonico (RC), in atto detenuto, già tratto in arresto nel corso dell’operazione TNT e già condannato in 1° grado alla pena di anni 10 mesi 4 di reclusione ed euro 2.800 di multa; Domenico Demetrio Battaglia, di 51 anni di Reggio Calabria, in atto detenuto, già tratto in arresto nel corso dell’operazione TNT e già condannato in 1° grado alla pena di anni 9 mesi 4 di reclusione ed euro 1.800 di multa.
GLI ESITI DEL PROCESSO “TNT”
Tutti gli indagati dell’operazione “TNT”, al termine del giudizio di 1° grado, nel corso del quale tutti hanno optato per il rito abbreviato, hanno riportato pesantissime condanne e, nello specifico: Domenico Demetrio Battaglia: 9 anni di reclusione ed euro 1.800 di multa; Giovanni Cilione: 8 mesi 6 di reclusione ed euro 1.800 di multa; Teodoro Moro: anni 11 di reclusione ed euro 3.000 di multa; Massimo Murina: anni 8 mesi 4 di reclusione ed euro 2.000 di multa; Massimo Piccolo anni 8 di reclusione ed euro 1.600 di multa; Osvaldo Surace: anni 1 mesi 4 di reclusione ed euro 400 di multa; Giuseppe Zampaglione: anni 10 mesi 4 di reclusione ed euro 2.800 di multa; Ivano Cirillo: anni 1 mesi 4 di reclusione ed euro 400 di multa; Damiano Roberto Berlingieri: anni 2 di reclusione; Vincenzo Fortugno: anni 2 mesi 4 di reclusione ed euro 300 di multa.