‘Ndrangheta. Le dichiarazioni del boss Pesce
"A casa mia cumandu io". Erano attese, e sono arrivate alla fine dell'udienza di oggi del processo All inside, le dichiarazioni spontanee di Antonino Pesce, detto Ninu u Testuni, boss dell'omonima cosca di Rosarno, nel Reggino. Pesce ha parlato durante l'udienza davanti al tribunale di Palmi, in videoconferenza dal carcere di Secondigliano di Napoli, dove sta scontando l'ergastolo. Due i punti su cui si e' soffermato Pesce, la difesa di suo figlio Francesco, gia' condannato a 20 anni in primo grado in abbreviato a Reggio Calabria, per lo stesso processo; e per negare l'esistenza di una cassa comune della cosca. "In nessuna intercettazione tra quelle descritte dall'ispettore Carpino (della polizia penitenziaria ndr) c'è un riferimento fatto da me alla cassa comune. Io parlavo a mia madre di fare con Salvatore (suo fratello e padre della collaboratrice Giuseppina ndr) quello che avevamo fatto con Rocco - cioè di pagare le parcelle degli avvocati - riferendomi al rapporto che c'è tra una madre e un figlio. La mia frase su "anche se non merita" si riferisce al fatto che mio fratello Salvatore era conosciuto come "babbo" e non al fatto che si meritava di essere difeso. E poi facevo riferimento ai risparmi dei miei genitori che di soldi nella borsa ne avevano tanti. Avevano due banchi della frutta a Rosarno e a Serra San Bruno e di soldi ne hanno fatti tanti". Il secondo e piu' importante passaggio ha riguardato suo figlio: "A casa mia cumandu io. Signor giudice mio figlio Cicciu Testuni non fa niente per nessuno. A casa mia cumandu io e figghiuma non cunta nenti. Signor giudice se ci sono colpe sono le mie, ma le colpe non ci sono. Si parla si parla ma non ci sono i riscontri, solo parole ma dove sono i soldi?".