‘Ndrangheta, pentito: volevo far arrestare zio boss latitante
È iniziato nel pomeriggio di ieri il controesame del collaboratore di giustizia Roberto Moio nel dibattimento in corso col rito ordinario del processo scaturito dall'operazione Meta a carico di esponenti di primo piano delle cosche della 'ndrangheta di Reggio Calabria. Il pubblico ministero antimafia Giuseppe Lombardo – informa l’Ansa - ha concluso l'interrogatorio nel primo pomeriggio ed è iniziato il controesame dei difensori che hanno sollevato questioni procedurali dinanzi al tribunale presieduto da Silvana Grasso in merito al deposito dei verbali sottoscritti dal pentito, nipote acquisito del boss della 'ndrangheta di Archi Giovanni Tegano.
Roberto Moio, rispondendo alle domande dei legali, ha ripercorso le tappe della sua ''carriera" nella 'ndrangheta. ''Sono stato iniziato nella 'ndrangheta a 23 anni - ha detto - nel 1987. Prima di prendere questa strada mi arrangiavo con dei lavori di meccanico''. Poi ha confermato gli assetti di vertice della 'ndrangheta di Archi, una sorta di cupola tripartita con pari dignità di responsabilità e di comando capeggiata da Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello e Giovanni Tegano. Moio ha anche riferito di avere tentato, nel 2004, di fare una soffiata alle forze dell'ordine per fare arrestare lo zio Giovanni Tegano, all'epoca superlatitante.
"Non ho mai capito - ha detto - se i Tegano avessero capito questa mia intenzione. È certo che da quell'anno in poi non incontrai più fisicamente mio zio Giovanni Tegano e mi limitavo a ricevere gli ordini da un suo stretto collaboratore, Giancarlo Siciliano. E continuavo a recuperare i soldi delle tangenti, in particolare nell'azienda in cui lavoravo, la New Labor, che aveva in appalto la pulizia dei carri ferroviari in partenza da Reggio Calabria".