Non favorì la latitanza, assolta la compagna di Ernesto Fazzalari
La Corte di Appello di Reggio Calabria (presidente Felicia Genovese, relatore Tommasina Cotroneo), ha riformato la sentenza di condanna con cui il giudice dell’Udienza Preliminare aveva condannato Rosa Zagari per il reato di procurata inosservanza pena, aggravata dalla finalità di favorire la cosca Zagari-Fazzalari.
La donna, compagna di Ernesto Fazzalari, era stata arrestata dopo essere stata trovata in sua compagnia durante la cattura, avvenuta a fine giugno del 2016, dell’ex latitate, ricercato da circa 20 anni.
Allora Zagari finì carcere anche per il porto e detenzione di una pistola con matricola abrasa (aggravati dalla finalità di agevolare il clan reggino) che fu ritrovata nell’abitazione di Trepitò di Molochio, dove il latitante aveva trovato rifugio.
In primo grado la donna era stata assolta per il reato relativo all’arma ma condannata per la procurata inosservanza pena: poiché secondo il aveva prestato “una concreta ed efficace attività di assistenza al convivente”, Fazzalari, recandosi e trattenendosi nell’abitazione dove il ricercato di nascondeva e, così, consentendogli di incontrarla “senza esporsi a particolari rischi ed assicurandogli la necessaria assistenza materiale e morale”.
La difesa della Zagari, rappresentata dall’avvocato Antonino Napoli, ha contestato le motivazioni della sentenza di condanna, evidenziando che la donna non avrebbe compiuto alcuna attività diretta a consentire al latitante di evitare l’esecuzione della pena.
“La condotta del reato di procurata inosservanza di pena - ha sostenuto l’avvocato Napoli - consiste in un'attività volontaria, specificamente diretta ad eludere l'esecuzione della pena, che concorre con quella del condannato ricercato. Ne consegue che non è responsabile del reato chi, pur consapevole della condizione di condannato che si sottrae all'ordine di carcerazione, non svolge alcuna specifica attività di copertura del latitante rispetto alle ricerche degli organi di polizia ma intrattiene con questi rapporti interpersonali leciti” messi in atto “per umana solidarietà”.
Il legale ha osservato che seppur il reato contestato può assumere le forme più diverse, è necessario, per l'integrazione della condotta tipica, “che l'aiuto prestato … sia concretamente idoneo a conseguire l'effetto di sottrarlo all'esecuzione della pena e si leghi funzionalmente all'intenzione dello stesso di sottrarsi all'esecuzione”.
La Corte, condividendo le argomentazioni difensive ha assolto la Zagari con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Nel corso dello stesso processo Ernesto Fazzalari, invece, era accusato della detenzione abusiva dell’arma ritrovata nella casa di Trepitò, delle munizioni e della ricettazione dell’arma, reati aggravati dall’aver commesso il fatto con la finalità di agevolare la cosca.
Il Giudice dell’Udienza Preliminare lo aveva condannato a sei anni di carcere e ad una multa di 10 mila euro. I giudici di secondo grado, ritenendo parzialmente fondato l’appello del suo difensore, lo stesso avvocato Napoli, ha escluso la circostanza aggravante mafiosa su tutti i capi di imputazione rideterminando la pena in 4 anni e 2 mesi di reclusione e 9 mila euro di multa.
Per entrambi gli imputati la Procura Generale, rappresentata da Alberto Cinfarini, aveva chiesto la conferma della condanna. Per il solo Fazzalari aveva chiesto la riduzione di otto mesi per assorbimento della condotta di detenzione di arma comune da sparo con matricola abrasa in quella di arma clandestina.