‘Ndrangheta. La denuncia del pentito Emanuele Mancuso: “Mia figlia è in pericolo”
La motivazione che portò Emanuele Mancuso, rampollo del clan Mancuso di Limbadi, a diventare nel 2018 un collaboratore di giustizia, sarebbe in pericolo. A denunciarlo, in una lunga lettera, è proprio il giovane pentito che attacca i familiari e il Tribunale dei minori e denuncia: “Mia figlia in mano alla ’ndrangheta”.
Nella lunga missiva il 31enne ricorda che era stata proprio la nascita della figlia, avuta dall’ex compagna Nensy Vera Chimirri, ad indurlo a collaborare con la Dda nella speranza di darle un futuro migliore, “diverso, lontano dal contesto sociale e criminale di mia appartenenza" afferma lo stesso aggiungendo che "per tale motivo, da padre, non posso accettare quello che sta succedendo”.
Il collaboratore di giustizia rende noto il suo “stato di frustrazione e preoccupazione” per le sorti della figlia, di soli 30 mesi. Mancuso sostiene infatti che “nonostante le pressioni da me subite per la scelta intrapresa, scaturite nel procedimento penale, in fase di trattazione, a carico della mia ex compagna e dei miei congiunti per le pressioni tese a farmi ritrattare le dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria, ad oggi, ella, seppur sottoposta allo speciale programma di protezione, nella realtà dei fatti, grazie alla disponibilità della madre, Nency Vera Chimirri, mantiene contatti con ambienti ‘ndranghetistici”.
“La mia scelta – precisa - non è stata condivisa da Nensy la quale ha, prontamente, rifiutato la collocazione in località protetta e l’ammissione allo speciale programma di protezione rimanendo, invece, legata alla famiglia Mancuso, condividendone lo stesso tetto insieme alla bambina”.
L’ex esponente del clan di Limbadi racconta quanto alla Procura Minorile di Catanzaro, che per “tutelare mia figlia in grave pericolo per le dichiarazioni da me rese, alcune delle quali discoverate, nei primi mesi del 2019, ha avanzato al Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, richiesta di immediato allontanamento della minore dalla Calabria con collocazione in località protetta".
"Ma i giudici, inspiegabilmente, per ben tre volte - aggiunge - hanno provveduto a rigettare tale richiesta, lasciando la minore sul territorio, incurante del grave pericolo che incombeva, seppur conscio del fatto che pendeva e pende, sulla mia testa, una taglia, di circa un milione di euro, messa da Luigi Mancuso (lo zio, e capo supremo della consorteria, ndr)”.
Successivamente la bambina e la madre sarebbero state allontanate dal Vibonese, ma la bambina continua a vivere “con la madre legata senza ombra di dubbio alla famiglia Mancuso”, ribadisce Emanuele.
A dire del giovane pentito, sarebbe proprio la sua famiglia ad impedirgli di vedere la piccola: “In quasi tre anni ho visto mia figlia poche volte, in quanto la madre ha sempre cercato di impedirne i contatti, operando continue vessazioni nei miei confronti e soprattutto con l’indifferenza di un Tribunale per i Minorenni che è rimasto inerte alle mie continue e numerose segnalazioni”. Emanuele Mancuso chiude la lettera scrivendo: “Chiedo solo giustizia!”.