Appalti Calabria: Cassazione, “Mancano indizi gravi su Oliverio”
“Assenza di gravità indiziaria” e “chiaro pregiudizio accusatorio”: sono gli elementi che hanno spinto la Corte di Cassazione, il 20 marzo scorso, ad annullare nella sua totalità, e non solo per la parte cautelare, l’ordinanza che imponeva al governatore della Calabria, Mario Oliverio, l’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore (nel cosentino), suo comune di residenza, nell’ambito dell’inchiesta “Lande Desolate” (LEGGI) che lo vede indagato per presunte irregolarità nella gestione di alcuni appalti.
A Oliverio viene contestato il reato di abuso d'ufficio. La misura restrittiva gli fu notificata il 17 dicembre scorso (LEGGI).
Le motivazioni della sentenza sono state rese note oggi ed evidenziano “l'esclusione della gravità indiziaria per l'abuso di ufficio”, richiamando il fatto che, rispetto ai lavori di Lorica, Oliverio “non era a conoscenza delle modalità ingannevoli di redazione dei Sal con cui erano stati disposti i pagamenti ed autorizzati i finanziamenti per i lavori complementari sulla base della stipula dell'atto di sottomissione approvato”.
Tesi ribadite più volte dagli avvocati difensori del presidente della Regione, Vincenzo Belvedere e Armando Veneto, fino a spingere la Suprema Corte a sostenere che “il ricorso è fondato sia con riferimento alle censure che attengono alla gravità indiziaria e sia con riguardo a quelle che investono la valutazione delle esigenze cautelari”.
Tra gli aspetti principali richiamati nella motivazioni anche il fatto che “le conversazioni intercettate, alle quali non prende mai parte il ricorrente, vengono lette ed interpretate senza considerare, come pure espressamente sollecitato dalla difesa in sede di riesame, la intonazione canzonatoria e irriverente assunta dagli interlocutori sintomatica del compiacimento per essere riusciti a persuadere il presidente della Regione della bontà dei loro progetti e della serietà dell' operazione imprenditoriale nel suo complesso, tanto da avere anche raccolto l'entusiasmo del suo appoggio ‘politico’ per incrementare l'opera con ulteriori lavori ritenuti funzionali allo sviluppo turistico della zona”.
Secondo la Cassazione, dunque, “la chiave di lettura delle conversazioni muove dal chiaro pregiudizio accusatorio che anche il ricorrente avesse condiviso le modalità fraudolente con cui dovevano essere finanziate le opere appaltate, e che il riferimento degli interlocutori allo scarso apporto del capitale privato fosse stato compreso effettivamente dal ricorrente per la valenza criminosa che aveva e non anche come una interlocuzione scherzosa intercorsa tra i funzionari pubblici, a commento dell'incontro positivo - spiegano i giudici - avuto con il presidente della Regione, per la soddisfazione di essere sostanzialmente riusciti a raggirarlo”.
Le motivazioni definiscono come un “ulteriore errore di valutazione” quello che “emerge dall'enfatizzazione del ruolo di ‘unico proponente’ della delibera di competenza della Giunta regionale, trattandosi di un dato solo formale, non adeguatamente approfondito sotto il profilo della rilevanza del concreto ruolo svolto dal ricorrente nella verifica della correttezza dell'iter amministrativo seguito, tenuto conto che con la stessa delibera sono stati approvati stanziamenti analoghi che hanno riguardato secondo quanto emerge dalla produzione documentale allegata al ricorso numerosissimi progetti”.
La delibera a cui fa riferimento la Cassazione, è la numero 159 del 13 maggio 2016 con cui la Giunta regionale ha approvato lo stanziamento in bilancio dell'importo di 4,2 milioni di euro per lavori complementari, sebbene fosse a conoscenza - era l’accusa - sia dello stallo dei lavori e della crisi finanziaria della società aggiudicatrice e sia della pretestuosa e fittizia rappresentazione delle nuove opere come complementari. Tesi, quest’ultima, ribaltata dalla Suprema Corte.