Processo Marlane Marzotto: dov’è la giustizia?
Si apre con la notizia di altri due decessi tra gli ex-lavoratori la giornata dell’ennesima udienza preliminare del processo alla Marlane Marzotto. Un udienza infinita, cominciata alle ore 9.00 di mattina e terminata alle 17.00 circa, scandita dai freddi interventi dei “principi del foro” (tra cui gli studi degli avv. Ghedini e Pisapia) chiamati a difesa dei responsabili di una strage senza precedenti. Interventi di sola elencazione di eccezioni e nomi, una perdita di tempo evitabile con la semplice presentazione delle memorie, peraltro già preparate da tutti gli avvocati e poi consegnate al giudice. Ma l’allungamento dei tempi, da un anno circa si è ancora alle udienze preliminari, serve ad arrivare alla prescrizione…forse il vero obiettivo degli indagati. Di certo le circa 300 costituzioni di parte civile contro gli imputati e le aziende, tra le quali la Cgil, le istituzioni locali ed alcuni comuni anche limitrofi, associazioni ambientaliste ed altri, hanno ulteriormente pesato sui tempi del processo. Quel disastro ambientale dovuto alla totale mancanza di ogni minimo criterio di sicurezza, in quella che era una delle più importanti fabbriche tessili d’Italia, ha ucciso per tumore centinaia di persone, ma sembra totalmente estraneo a questo processo. L’azienda fu fondata negli anni ’50 dal conte Rivetti e produceva tessuti, per lo più divise militari. I reparti erano divisi tra loro da mura. Poi nel 1969 passò nelle mani dell’ Eni – Lanerossi e, successivamente, nel 1987, al gruppo Marzotto per 173 miliardi di lire.
Per i 200 lavoratori espulsi la finanziaria dell’Eni mise a disposizione, per ognuno di loro, 44 milioni per una riallocazione occupazionale mai avvenuta. La fabbrica, appena gestita dalla Lanerossi, tolse le mura divisorie e così divenne tutto un ambiente unico in cui convergevano tessitura e orditura, filatura e tintoria e così i fumi provenienti dalle sostanze chimiche della coloritura si espandevano ovunque. Non c’erano aspiratori funzionanti e gli operai gettavano i coloranti in vasche aperte senza alcuna protezione. Nella fabbrica c’era anche l’amianto presente nelle pastiglie dei freni dei telai, che, consumandosi, emettevano polveri respirate da tutti. A fine giornata veniva “donata” una busta di latte ad ogni lavoratore, unico rimedio ai veleni respirati durante tutto il turno di lavoro. Nel 1996 la tintoria veniva chiusa. I danni sembrano anche estesi all’ambiente circostante. Dietro la Marlene Marzotto ci sono scavi in cui sono stati rinvenuti rifiuti tossici. La dura verità, la realtà, rimane fuori da quest’aula. Si legge, si respira, nei visi stanchi dei parenti delle vittime, sinora 160, negli occhi dei lavoratori colpiti dal male, altri 100. Hanno combattuto la loro battaglia appoggiati dal solo sindacato Slai cobas e dalla forza e dalla determinazione di Cunto, un loro compagno e collega, che insieme hanno presentato le prime denunce, lottato contro i numerosi tentativi di archiviazione e mandato, infine, a processo i vertici delle aziende coinvolte.
Ora compare anche chi, fino ad adesso, non si era visto neanche con il binocolo. Un banchetto di Rifondazione comunista staziona fuori al palazzo di giustizia sino all’ora di pranzo. Appare anche una telecamera della Rai…poche riprese e va via. Solo pochi trafiletti su alcuni giornali, veloci servizi in televisioni private…nel silenzio una vicenda che dovrebbe avere il massimo dello spazio sia per il numero di persone coinvolte, sia per la gravità dei fatti, sta procedendo. Il processo va avanti in un aula che sa di negazione di quella giustizia che dovrebbe essere il baluardo di una società civile e democratica. La prescrizione, se dovesse essere raggiunta dagli imputati, non cancellerà il male che hanno fatto, cancellerà un altro pezzo di quella idea di giustizia che non sembra più esistere nel nostro paese.
Da Paola, un articolo di Stefano Federici