Il processo alla Marlane Marzotto rimane a Paola
Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa di Stefano Federici sul caso Marlane
"Ci hanno provato, le parti difensive dei responsabili del massacro dei lavoratori dell’azienda tessile, ad allungare ulteriormente i tempi del processo cercando di spostarlo a Vicenza e a estromettere, dal dibattimento, quel sindacato, lo Slai cobas, che dal primo momento è stato vicino ai lavoratori e alle loro famiglie. Non sembra essere interesse degli avvocati difensori avere una sentenza, una sentenza su un fatto talmente grave che dovrebbe smuovere le coscienze di ogni cittadino…a prescindere dal ruolo che svolge.
Più che giusto che gli imputati abbiano dei difensori…meno giusto, meno morale, che gli studi di questi grandi oratori del foro italiano, Ghedini e Pisapia in testa, utilizzino escamotage per fare in modo che il processo non venga proprio fatto…e arrivi alla prescrizione. È interesse anche degli imputati che il processo si svolga…la giustizia non è una variabile dipendente dal potere o ingabbiata in mille artifizi che le impediscano di procedere…affermare questo, tentare di svilirne il significato, va contro gli stessi imputati e i loro avvocati.
Ricordiamo la vicenda, per chi ancora non ne fosse a conoscenza:
L’azienda fu fondata negli anni ’50 dal conte Rivetti e produceva tessuti. Poi nel 1969 passò nelle mani dell’ Eni – Lanerossi e, successivamente, nel 1987, al gruppo Marzotto per 173 miliardi di lire. Per ognuno dei 200 lavoratori espulsi la finanziaria dell’Eni mise a disposizione 44 milioni per una riallocazione occupazionale mai avvenuta. La fabbrica, gestita dalla Lanerossi, tolse le mura divisorie e così nell’ “open space” creato convergevano i fumi provenienti dalle sostanze chimiche della coloritura espandendosi ovunque. Non c’erano aspiratori funzionanti e gli operai gettavano i coloranti in vasche aperte senza alcuna protezione. Nella fabbrica c’era anche l’amianto presente nelle pastiglie dei freni dei telai, che, consumandosi, emetteva polveri respirate da tutti. A fine giornata veniva “donata” una busta di latte ad ogni lavoratore, unico rimedio ai veleni respirati durante tutto il turno di lavoro. Nel 1996 la tintoria veniva chiusa.
Ai tentativi della difesa di prolungare i tempi del processo risponde l’avv. Senatore, che rappresenta decine di lavoratori ammalati, famiglie di defunti e lo Slai Cobas:
“La competenza deve rimanere sul posto. I veri danneggiati, gli unici danneggiati, sono loro ed hanno il diritto di veder giudicate le malefatte di questi 20 anni di follia dove decisioni, senza nessun rispetto per la salute dei lavoratori, venivano prese in loco…e non altrove”. “Gli autori, i responsabili della morte di oltre 160 persone, per patologie tumorali derivanti dai danni ambientali per l’uso di sostanze cancerogene, devono essere giudicati dove hanno commesso il fatto”. “La richiesta delle difese di estromettere il sindacato Slai cobas non può essere accolta…lo Slai cobas è stato il protagonista, assieme ai lavoratori, di tutta la vicenda. Senza le loro denunce oggi il processo non ci sarebbe”.
È chiara la tattica dilatoria delle difese…è chiaro, altrettanto, che la giustizia non può essere negata a chi sta soffrendo, a chi è morto. Un processo senza nessuna eco mediatica si sta svolgendo in quel profondo Sud abbandonato da uno Stato capace solo di imporre gabelle. La giustizia, la verità, reclamano che il processo vada al suo giusto e naturale compimento, che i responsabili di una strage senza nessuna giustificazione vengano giudicati…se questa è ancora una democrazia non potrà esserci una diversa conclusione".